UN INEDITO DOPPIO FRONTE
Stretta tra le paure europee verso una Russia bellicosa e i rivolgimenti mediorientali annunciati dai carnefici dell’Isis, l’Alleanza Atlantica era costretta a guardare avanti. Il mondo di oggi è privo delle regole che la Guerra fredda malgrado tutto aveva, i deterrenti di ieri non funzionano più o non sono più credibili, le minacce — Russia esclusa — sono nuove, con profonde radici regionali e non globali, alimentate da alleanze cangianti attorno a fattori religiosi, etnici, tribali che mal si combinano con la geopolitica degli interessi. Davanti alla destabilizzazione dilagante la Nato doveva battere un colpo, e lo ha fatto.
Non benissimo, perché la tregua in Ucraina decisa da Putin fin nell’orario ha preso in evidente contropiede le rampogne occidentali. Non benissimo anche perché contro l’Isis la Nato non può agire in quanto tale. Per l’Alleanza come per tutti, insomma, gli esami non finiscono qui. Ma un segnale di impotenza, che sarebbe stato disastroso, è stato evitato.
Il dossier ucraino era quello che la Nato era meglio preparata a trattare. Avendo Obama affermato sin dall’inizio delle ostilità che non ci sarebbe stato un coinvolgimento militare americano ( o Nato), a Newport sono stati seguiti gli unici due binari rimanenti. Contro la Russia di Putin sanzioni economiche, che peraltro ora si trovano ferme in rampa di lancio in attesa di vedere se reggerà la tregua. A favore degli alleati dell’Europa orientale, invece, una forza di intervento rapido con un quartier generale dislocato all’est e depositi di armamenti pronti all’uso nelle Repubbliche baltiche, in Polonia e in Romania.
Servirà a trasmettere il messaggio che sì, l’Alleanza è pronta a «morire per Tallinn» come nel ’39 si cominciò a morire per Danzica. Ma non può sfuggire come le lamentele russe sul progressivo avvicinamento delle forze Nato ai suoi confini abbiano qualche fondamento. E del resto la vera partita l’Occidente dovrà continuare a giocarla proprio con la Russia. L’Ucraina, anche se Putin ha la faccia tosta di dichiararsi del tutto estraneo alle sue vicende, offre ora uno strettissimo spazio di manovra che gli europei per primi dovrebbero sfruttare. Le incognite sono ancora pesanti, dal non garantito ritiro delle forze russe ai falchi di Kiev (e di Donetsk) che vogliono a tutti i costi la guerra. Ma proprio per questo bisogna avviare un processo politico, e negoziare l’unica via d’uscita possibile in un Paese ormai diviso da un mare di sangue dopo esserlo stato dai trascorsi storici: un accordo che garantisca sì la sovranità dell’Ucraina ma concedendo alle aree del Donbass un alto grado di autonomia. Non troppo alto. Che non consenta a Donetsk di fare la «sua» politica estera, per esempio, ma che non spinga nemmeno Kiev verso la Nato. Ora che un simulacro di deterrente è stato creato, bisogna inseguire un accordo politico che eviti una escalation militare nel mezzo dell’Europa. E questo lo deve capire anche l’America.
Resta l’Isis, resta la minaccia di un terremoto mediorientale. È stata creata una coalizione di 10 Paesi che comprende l’Italia e che coprirà le spalle a Obama nel passo che sembra ormai ineludibile: bombardare le retrovie dei tagliagola islamisti in Siria. Con l’Iran alleato di fatto. Con Assad che in qualche modo si mostrerà indispensabile. L’America e tutto l’Occidente dovranno pagare un prezzo politico alto. Ma l’Isis va fermato, e dopo tre anni di mancati interventi nella mattanza siriana il castigo politico appare meritato.
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