L’egemonia riluttante della Germania All’Europa manca un leader politico
UNIONE E NAZIONI
Quando la grande crisi dell’economia scoppiata nei mercati finanziari degli Stati Uniti ha attraversato l’Atlantico arrivando a mettere in forse la stessa sopravvivenza dell’euro, l’Europa, a un passo dal precipizio, ha dimostrato di possedere la volontà necessaria per difendere la propria moneta e, con essa, le ragioni e i valori della propria unità. La determinazione messa in campo per salvare l’euro non ha, tuttavia, posto le basi per una solida ripresa dell’economia. Lo sappiamo bene noi italiani, alle prese con una recessione che non finisce mai. Ma è tutta l’Europa che non se la passa bene, tanto che il dato sull’arresto della ripresa industriale nel mese di agosto non è che l’ultimo di tanti indicatori col segno meno. Molte delle cause che impediscono all’Europa di riprendere il cammino con passo spedito hanno una dimensione strettamente nazionale. Questo vale per l’Italia, con l’elenco ben noto e tante volte ripetuto delle riforme che aspettano di essere realizzate. E vale anche per tutti gli altri Paesi, nessuno escluso. Sbaglierebbe, tuttavia, chi restringesse il fuoco dell’analisi e della critica alla sola scala nazionale. È l’Europa dell’euro come sistema che ha bisogno di una profonda cura, per resistere a infezioni recenti come quella che ha scosso il mondo delle banche, per rimediare a difetti originari della sua costruzione. Sapevano bene, coloro che dell’euro furono i padri, che i Paesi che si accingevano a lanciare la moneta unica costituivano un gruppo tutt’altro che omogeneo. Così com’erano ben consapevoli della scommessa che stavano prendendo, varando un’unione monetaria senza che a questa si affiancasse una corrispondente unione economica, senza che al governo della moneta affidato alla Banca centrale europea si accompagnassero un governo e un bilancio europei. Ma il loro era un progetto non di economisti né, tanto meno, di banchieri, ma di politici e di statisti. E la speranza che li sorreggeva, per tanti anni convalidata dai fatti, era che le regole dell’euro via via più stringenti e la volontà dei governi portassero a una progressiva convergenza delle economie e delle società dei Paesi membri e al graduale imporsi di un governo comune dell’economia. I tempi che stiamo vivendo mettono in causa la credibilità di questo disegno. E non si tratta soltanto — e già questo è tutt’altro che facile e scontato — di cambiare ricetta economica, di passare dall’austerità al sostegno della crescita. Perché, se avvenisse unicamente Paese per Paese, neppure questo cambio di passo potrebbe bastare. Ciò che serve è riconoscere che l’Europa dell’euro è una costruzione la cui natura non si esaurisce nella somma delle sue componenti nazionali, che la cura dei suoi mali impone una terapia su scala dichiaratamente europea e che questo non può avvenire se non si pone in grembo all’Europa l’autorità politica indispensabile per procedere con una visione di insieme e nell’interesse generale. Molto, per non dire quasi tutto, dipende dalla Germania. In questa lunga stagione di depressione, la sua strabordante forza economica l’ha resa la potenza egemone. Ma si tratta di un «egemone riluttante» — l’espressione si deve al titolo di un celebre articolo del 2011 di William Paterson — che preferisce stare in coda al gruppo per controllarlo che porsi alla sua testa per guidare il cambiamento. Si può sperare che la Germania dimostri l’ambizione e la volontà per esercitare il proprio ruolo in un modo che sia all’altezza delle sfide che stanno di fronte all’Europa? Si può immaginare che il cancelliere Angela Merkel sviluppi il coraggio che fu proprio di Helmut Kohl? E da dove potrebbe venire la spinta per un simile scatto in avanti? Dall’economia? Meglio non farsi troppe illusioni. Per quanto pesi il recente rallentamento della sua macchina produttiva, è bene conservare una robusta dose di scetticismo riguardo alla possibilità che la Germania accetti davvero l’idea di non potercela fare da sola e che la sua ricetta economica non sia più quella giusta, né per l’Europa né per se stessa. Se la Germania dovrà scegliere di identificare fino in fondo il proprio interesse nazionale con quello europeo e puntare, di conseguenza, tutte le proprie carte sul completare la costruzione della casa comune europea, è nonostante tutto più probabile che questo avvenga sul campo non dell’economia ma su quello della politica e, in particolare, della politica internazionale. È più coerente con la sua storia pensare che questo possa avvenire se e quando sarà arrivata a concludere che solo l’Europa (da lei guidata) potrà risolvere il problema dei rapporti con la Russia e continuare a garantire la sicurezza e la pace nel continente. Il mix di questi giorni, tra crisi economica e Ucraina, forse comincia a puntare in quella direzione.