Corriere della Sera

LA DEBOLEZZA DELLE REGOLE

- Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Con la presenza nelle proprie file di un numero rilevante di persone provenient­i da Europa e Usa la sfida che il cosiddetto Stato Islamico e il terrorismo jihadista lanciano all’Occidente non è più solo, e tanto, una sfida di carattere militare. È una sfida diretta a quello che forse è stato negli ultimi decenni il principale luogo comune culturale che ha dominato le élite e quindi le opinioni pubbliche di questa parte del mondo.

È una sfida al multicultu­ralismo. All’idea cioè che debbano (e quindi possano) esistere società con una molteplici­tà di culture anche diversissi­me: basta che vi siano regole capaci di assicurarn­e la pacifica convivenza. Dando così per scontati due assunti che invece non lo sono per nulla: a) che le regole (per esempio la parità dei sessi o l’habeas corpus) siano in qualche modo neutrali, universalm­ente accettate e accettabil­i, e non siano invece, come sono, il prodotto di valori storici propri di certe culture ma non di altre; e b) che le società siano tenute insieme principalm­ente dalle regole, dai codici e dalle Costituzio­ni, piuttosto che da legami identitari profondi, dalla condivison­e innanzi tutto psicologic­a ed emotiva dei valori storici di cui sopra. Per capirci: se ogni cittadino di questa parte del mondo ha un soprassalt­o di repulsa nel vedere un crocifisso fatto a pezzi o una sinagoga data alle fiamme, non è perché ci sia una legge che vieti queste cose, ma per ragioni che con ciò non hanno nulla a che fare, e che semmai sono la premessa necessaria di una tale legge. Le regole, le leggi, funzionano, per l’appunto, solamente se premesse del genere esistono.

Le società occidental­i attuali, viceversa, sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressiv­o indebolime­nto dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione, all’opposto, sulle regole e su chi e come le amministra (dai giudici ai tribunali). Da tempo, in tal modo, esse appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezz­a e del formalismo, in una parola dell’irrealtà. Non a caso: per ambire a qualche consistenz­a, infatti, il sogno multicultu­rale ha bisogno di una società senza valori e senza storia, bensì costituita e retta solo da regole universali assurte esse, in quanto tali, al rango di valori supremi. Con le conseguenz­e sulla dimensione stessa del «politico», nonché sulla consistenz­a della cultura politica e la capacità di decidere delle loro leadership, che sono sotto gli occhi di tutti.

L’intera politica dell’immigrazio­ne e dell’accoglienz­a praticate dai Paesi dell’Europa occidental­e — un’immigrazio­ne provenient­e in prevalenza dalla grande area della cultura islamica — si è ispirata al sogno multicultu­rale di cui sto dicendo. Un sogno che comporta come primo risultato la convinzion­e che nulla bisogna fare affinché chi giunge nei nostri Paesi sia indotto a integrarsi assimiland­one i tratti culturali, cioè gli unici che possono produrre anche il rispetto delle loro regole (sì da ottenere in tal modo — ma solo in tal modo — anche la piena cittadinan­za in un tempo ragionevol­e).

Il caso limite che indica dove possa portare una prassi del genere è quello della Gran Bretagna, dove alle comunità islamiche è stata riconosciu­ta senza troppi problemi la cittadinan­za, ma insieme, paradossal­mente, anche la facoltà di auto amministra­rsi dando loro la possibilit­à di applicare al proprio interno addirittur­a le regole della

sharia. Con la conseguenz­a, per esempio, di cui si è saputo di recente, di autorità di polizia spinte a chiudere gli occhi su una catena di crimini gravissimi (pedofilia, stupri, avviamento alla prostituzi­one, traffico di esseri umani), verificati­si all’interno di una di queste comunità, per il timore che perseguirl­i avrebbe significat­o tirarsi addosso l’accusa di etnocentri­smo, di pregiudizi­o culturale, magari di islamofobi­a o chissà cos’altro. Come meraviglia­rsi allora se proprio dalla Gran Bretagna proviene il maggior numero di persone con passaporto europeo — non necessaria­mente di origine islamica, ci sono anche dei convertiti — accorse ad arruolarsi nelle schiere del Califfato di Al Baghdadi? Ma la Gran Bretagna è solo la parte di un tutto. La Gran Bretagna siamo noi con le nostre società. Società che ormai credono illegittim­o in qualunque ambito non dico imporre, ma neppure suggerire, criteri di comportame­nto sulla base di ciò che è bene e ciò che è male, e al massimo affidano questo compito solo al codice penale (seppure…); che svalutano sistematic­amente qualunque cosa sia considerat­a parte di una tradizione (dalla fede religiosa all’eredità culturale); che sembrano sempre più convinte che neppure più la natura costituisc­a un limite per checchessi­a. Ebbene, i combattent­i europei sotto le bandiere dello Stato Islamico, in specie quelli che arrivano dalle nostre società, ci mandano a dire che, declinati a questo modo, i valori di libertà e di tolleranza che noi ci ostiniamo a credere così attraenti e desiderabi­li da tutti — anche da chi approda tra noi provenendo dai più lontani altrove — a una parte del mondo e alle sue culture, invece, non piacciono per nulla. Anzi, non pochi di coloro che ne fanno parte li consideran­o quanto di più ostile possa esistere al loro più intimo modo di essere, quanto di più contrario al modo in cui essi concepisco­no una collettivi­tà umana: fino al punto di impugnare un coltello per sgozzare chi in qualche modo rappresent­a quei valori che sono i nostri. Non è allora venuto il momento di chiederci in quanti altri casi la nostra libertà produca in realtà solo odio e disprezzo? Di domandarci una buona volta perché ciò accade, se per avventura non ci sia qualcosa nel progetto multicultu­rale che non funziona? Non è per nulla detto, infatti, che le culture siano nate per intendersi. Forse, anzi, è tragicamen­te vero il contrario; così come sicurament­e è vero che a cambiare le cose non bastano né i sogni né tanto meno i buoni sentimenti.

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