«Quelli di Cernobbio non ne azzeccano una»
Il capo del governo: nella pubblica amministrazione molto grasso che cola
Dice Renzi: «Di là c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia ed Enrico» (Letta). «Di qua si apre un rubinettificio alla periferia di Brescia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?». Chi sono Annibale e gli altri? «Sono i vecchi operai della Bonomi, quelli che ho citato dal palco. Li ho visti all’ingresso e mi sono fatto dire i nomi».
Annibale è un bel vecchio con una benda su un occhio e il bastone; Aldo Bonomi, che nella nuova fabbrica ha investito 50 milioni di euro e darà lavoro a 220 operai, lo abbraccia: «Annibale mi portava a scuola quand’ero piccolo e mi pompava le ruote della bicicletta». Guardi Renzi che anche sul lago, a Cernobbio, si impara qualcosa, venerdì c’erano Shimon Peres e John McCain. «Infatti ci vanno cinque ministri, ci saranno più ministri a Cernobbio che a Bologna per la chiusura della festa dell’Unità, compreso il compagno Poletti», ride indicando il ministro del Lavoro, molto applaudito per il discorso più breve della storia: 40 secondi praticamente in dialetto emiliano. Si inserisce il presidente di Confindustria Squinzi: « A Cernobbio non mi hanno mai visto e mai nemmeno mi vedranno » , dice citando forse inconsapevolmente una canzone di De Gregori a proposito del festival di Sanremo. «Cernobbio è una fiera delle vanità — conclude Squinzi —. Io sono uno abituato a stare in fabbrica». Poletti accusa un improvviso mal di schiena e decide di non andare a Cernobbio neanche lui. Riprende Renzi: « Noi andiamo avanti. Cattivi e determinati. Io accetto le critiche, ma preferisco quelle della gente a quelle dei soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una. Per fortuna, vedo che tra la gente il sentimento nei miei confronti è ancora positivo. E non perché amino me. Perché in me vedono uno che nell’Italia ci crede davvero». È davvero convinto di aver fatto la scelta giusta per l’Italia, impuntandosi sulla Mogherini? «Certo. Non è stata una vittoria di qualcuno; è stata una vittoria del Paese, cui viene affidato un ruolo cruciale in un momento cruciale. Mi verrebbe voglia di tirare fuori i titoli di quest’estate, quando dicevano: “Tornerà a mani vuote…”». D’Alema ha riaperto le ostilità. «Perfetto. Mi attaccano D’Alema e Bersani: cosa posso volere di più dalla vita? Mancava Rosy Bindi, la attendevo con ansia, e
Io sto qui con Annibale e gli altri operai. Là c’è un convegno in un hotel 5 stelle Enunciano i problemi, anziché risolverli. I grandi esperti hanno fallito mentre la rubinetteria è un settore d’eccellenza del made in Italy D’Alema e Bersani attaccano: cosa posso volere di più?. Mancava Bindi, ora c’è pure lei
ora si è aggiunta pure lei. En plein».
L’avversario è connaturato al renzismo, il nemico è fondamentale per uno che si è costruito contro la classe dirigente del suo partito, e ora che è al governo continua a muoversi come se fosse all’opposizione: non a caso applaude quando il padrone di casa Bonomi ricorda l’insostenibilità del fisco e il peso della burocrazia. L’occasione di avere nelle stesse ore e a pochi chilometri un simbolo dell’establishment come Cernobbio è ghiotta, e infatti davanti agli operai bresciani il premier accenna più volte a «grandi convegni» da disertare, a «luoghi in cui si discute mentre qui si fa», a «coloro che enunciano i problemi anziché risolverli » ; perché « i grandi esperti hanno fallito, mentre la rubinetteria è un settore d’eccellenza del made in Italy». Ma l’applauso più facile e più fragoroso lo ottiene quando grida che «abbiamo troppi politici, e con la riforma del Senato abbiamo finalmente cominciato a ridurli». Il retrotesto è evidente, e rimanda alle categorie grilline: io sono uno di voi, non uno di loro; «il presidente del Consiglio non è che un bonus pater familias».
All’ingresso della fabbrica, tricolore, inno di Mameli e il prete — don Virgilio Tonetti da Lumezzane San Sebastiano — con turibolo per la benedizione. Servizio d’ordine agitatissimo. Il senatore Mucchetti sul palco delle autorità. La soubrette russa Natasha Stefanenko saluta «il nostro presidente del Consiglio». La folla lo chiama da dietro il cancello, lui si nega, «scusate sono in un ritardo vergognoso, ci salutiamo dopo», ma neppure alla fine troverà il tempo di stringere qualche mano (a parte gli operai dello stabilimento).
Renzi esordisce promettendo che non parlerà più di gufi, «per non offendere i gufi», intesi come specie ornitologica. Non si tiene però dal raccontare l’aneddoto prediletto, quello di «Ginettaccio Bartali» che diceva sempre «l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare» ma poi «rischiava la pelle per portare in bicicletta i documenti falsi per salvare gli ebrei» (qui Annibale, che a differenza dei cronisti non l’ha mai sentita, si commuove, «anche se io ero per Coppi»). Il discorso è improntato sulle due Italie: l’Italia dei professoroni, dei pessimisti, « di quelli che chiacchierano», insomma
I gufi cominciano ad attaccare la mattina presto, schiaffeggiano pure le nuvole, tengono il broncio pure all’arcobaleno
di Cernobbio; e l’Italia «di quelli che fanno, che hanno costruito il Paese, che ancora oggi si spaccano la schiena » , insomma dei rubinettifici, «punto di forza del Bresciano che è uno dei cuori dell’economia italiana».
Il mondo globalizzato, è l’idea di Renzi, finora è stato vissuto come una minaccia; «in realtà il nostro spazionazione è maggiore che in passato. Tra dieci anni avremo 800 milioni di nuovi consumatori. Non dobbiamo solo attrezzarci per accoglierli come turisti; dobbiamo puntare sulla qualità del made in Italy, fare qui prodotti che nessuno riesce a fare altrove, anche se in tanti provano a copiarli». Il premier cita Carlo Maria Cipolla: la nostra forza non è solo la cultura, ma «la capacità di fare cose straordinarie». L’Obama della notte della rielezione (senza nominarlo: «Anche qui da noi il meglio deve ancora venire»). E Adriano Olivetti: «Nel settore pubblico abbiamo applicato il suo principio: il dirigente non può guadagnare più di dieci volte l’ultimo impiegato, e pazienza per i dirigenti convinti di esercitare una missione divina. C’è ancora molto grasso che cola nell’amministrazione pubblica». Indulge fin troppo nell’autoironia: «Saluto i fratelli Aldo e Carlo Bonomi, so che ci sono anche delle sorelle, volevo cominciare con “fratelli e sorelle”, ma avreste pensato: questo qui si è montato la testa». Un’operaia grida «bravo Matteo!», e lui: «È mia cugina, l’ho pure pagata». «Uno vede chi è oggi il presidente del Consiglio, e pensa: come siete caduti in basso». Poi alla fine non si trattiene e attacca «i gufi che cominciano a criticare fin dalla mattina presto, che schiaffeggiano pure le nuvole, che tengono il broncio pure all’arcobaleno», contrapposti a «coloro che ce la mettono tutta perché ancora credono al futuro del Paese; a cominciare da voi bresciani, teste dure che avete fatto la storia d’Italia», non a caso «il Nord cresce come e a volte meglio della Germania».
Chiusura con il consueto «non molleremo di un centimetro», «costi quel che costi». Squinzi lo bacia sulle guance. Renzi scappa, gli altri passano al brindisi con franciacorta e bagoss. Il punto è che pure a Cernobbio, accanto a chi attende il cadavere del governo lungo il lago, qualcuno diceva più o meno le stesse cose: l’Italia ha potenzialità immense; deve rinunciare a pigrizie e facili garanzie per poterle cogliere. Certi ambienti però, nella strategia di Renzi, è meglio averli nemici che alleati. «Avanti così, cattivi e determinati».
Sì a chi ce la mette tutta perché ancora crede al futuro, sì a quelli che hanno costruito l’Italia e che ancora oggi si spaccano la schiena