Corriere della Sera

Le paladine della pace

Non amo gli eroi L’unica leader è stata mia madre

- Di LIZZIE DORON

Quando mi è stato chiesto di parlare della leadership delle donne, mi sono domandata se sia attuale parlarne come una questione di genere. La mia mente ha iniziato a visualizza­re personaggi celebri. Ha snocciolat­o gente come Churchill, Roosevelt, Stalin, Clinton, Ben Gurion, Golda Meir e Angela Merkel. Sono apparsi anche militari, guerrieri come Achille, Patton, Annibale, Montgomery e Rommel, e poi si sono fatti vivi i filosofi, leader a loro modo, con Heiddeger, Adorno, Popper, Sholem.

Ho sorriso a tutti questi volti che spuntavano dalla mia memoria, persone che hanno influenzat­o così tanti, hanno allevato discepoli, frapposto credenti e avversari, indicato a tutti noi le vie del bene e del male. Mi sono resa conto che ieri come oggi la maggior parte dei leader sono uomini e che la «questione di genere» anche in questo campo è una discussion­e da affrontare. Ma la mia mente si è posta un’altra domanda: chi è il tuo leader, Lizzie? La lista che da poco si era creata è svanita, come spazzata via, e un solo volto si è materializ­zato, il volto di colei che ha costruito per me un mondo in cui vivere, mia madre, Helena. E in un battito di ciglia sono tornata ad essere la bambina cresciuta in un piccolo quartiere di Tel Aviv, un quartiere dove tutti gli abitanti erano sopravviss­uti alla Shoah.

Erano tutti vittime di grandi leader, politici e militari, e anche vittime dei filosofi, responsabi­li anch’essi di aver pavimentat­o la

La passione S’infuriava con il preside della scuola e urlava che a sua figlia, nata dopo la guerra, bisognava insegnare solo ad amare la vita

strada che ha portato mia madre e la sua generazion­e negli abissi di polvere e oscurità. E queste persone ora dovevano riportare la vita dentro se stessi. E se mi guardo indietro, sono state le donne a intraprend­ere il cammino, a sostenere la rinascita e fondare una nuova esistenza. Gli uomini accanto a loro forse mantenevan­o le proprie famiglie, ma spesso dentro erano spezzati, privi di energie, come morti.

Posso condivider­e con voi la via scelta da mia madre Helena, una di quelle donne.

Mi viene in mente la lettera che mandò al preside delle elementari comunicand­o che non sarei andata a scuola alla cerimonia in ricordo di Trumpeldor. Dovete sapere che il signor Trumpeldor è stato un eroe che scelse come ultime parole prima di morire in battaglia «È bello morire per il nostro paese». Il suo eroismo e sacrificio scaldavano i cuori nell’Israele degli anni Sessanta e agli studenti si insegnava che il suo esempio era quello da seguire. E solo mia madre si infuriava e urlava che a sua figlia, nata dopo la guerra, bisogna insegnare solo ad amare la vita e se a combattere allora solo se obbligati, e anche allora solo per vivere e non certo perché è bello morire. E, mentre tutti i miei compagni partecipav­ano alla cerimonia, io me ne stavo a casa. In questo modo, già da bambina ho imparato che non bisogna farsi ingannare da un leader o uno slogan. Mia madre mi ha insegnato a dubitare, commentare, e a non idolatrare un uomo o un’opinione.

Non si faceva impression­are nemmeno dalla leadership militare. Nei giorni in cui lo Stato d’Israele sottolinea­va la necessità della sicurezza e Moshé Dayan e Arik Sharon erano gli eroi a cui molti guardavano con ammirazion­e, lei mi ripeteva continuame­nte che nelle guerre non ci sono vincitori, solo feriti e morti. Erano parole che lei pronunciav­a in un periodo in cui l’eroismo era una forma di linfa esistenzia­le per un paese nato dopo la guerra.

L’accorato appello di papa Francesco, che ha parlato di una Terza guerra mondiale che si sta combattend­o a tappe, ha reso più urgenti gli sforzi che pochi, in verità, stanno compiendo per scongiurar­e l’inevitabil­e. La Comunità di Sant’Egidio, che molti hanno giustament­e definito l’Onu di Trastevere, da decenni continua a promuovere l’incontro di tutte le religioni e dei laici volonteros­i con l’obiettivo di percorrere assieme l’accidentat­o sentiero che deve portare alla pace. Ogni anno, in un luogo diverso, l’incontro internazio­nale raccoglie le voci e canalizza la passione di chi non ha mai smesso di lottare e di pregare per una globale convivenza. Ad Anversa, da stamane e per tre giorni, l’incontro del 2014 ha un titolo che riconosce e premia l’ottimismo della volontà: «La pace è il futuro». Non è soltanto un cammino. Deve diventare una certezza.

Negli anni più difficili, quando si discuteva del primato di una religione sulle altre, la Comunità di Sant’Egidio continuava imperterri­ta sulla strada del dialogo, incurante di appunti e critiche. Oggi, con il sostegno di papa Francesco, il suo impegno è universalm­ente riconosciu­to, ma i conflitti in tante regioni tribolate sono infinitame­nte più gravi rispetto al passato. Iracheni, siriani, egiziani, palestines­i, israeliani, russi, pachistani, indiani, libanesi ne parleranno in decine di incontri con tutti i capi religiosi, dando vita a quelle Nazioni Unite delle religioni che anche in questi giorni vengono continuame­nte evocate come l’unica possibilit­à per promuovere davvero la pace. Di una Onu delle religioni ne ha parlato l’altro giorno al Pontefice l’ex presidente di Israele Shimon Peres. In verità, un’analoga iniziativa era stata proposta anni fa dal principe Hassan di Giordania, fratello del grande Re Hussein. Ne aveva anche prospettat­o la sede: Istanbul, a cavallo tra due continenti. Oggi, dalle macerie delle guerre che insanguina­no il mondo, e in particolar­e il Medio Oriente, si levano grida di disperazio­ne e di dolore che papa Francesco ha colto con la sensibilit­à di capo della Chiesa Cattolica e con la straordina­ria lucidità di grande leader planetario. Le religioni non sono la causa delle guerre, anche se a volte ne sono state il manipolato pretesto. Insomma, mai sono state il vero problema, però adesso c’è assoluto bisogno che diventino parte della soluzione.

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