Corriere della Sera

Quel chiacchier­iccio che ci tiene in schiavitù

Molte parole vuote, complice la rete E rischia di vincere il conformism­o

- Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

In una recente intervista a «El País», il capo di Stato dell’Uruguay, Pepe Mujica, ha dichiarato: «Sono stato schiavo per molti anni. Prima schiavo della dittatura e, in seguito, prigionier­o delle mie rigidità ideologich­e».

Nelle parole dell’anziano presidente c’è la lucidità dei poeti e dei rivoluzion­ari: la libertà e la schiavitù convivono più frequentem­ente di quanto si pensi. E di moderne forme di schiavitù si parlerà a «Jewish and The City», domenica 14: al Franco Parenti si confronter­anno religiosi, scrittori e storici. Cominciand­o col precisare che forse oggi sarebbe meglio parlare delle schiavitù, al plurale: dai pregiudizi sessuali e sociali ai persecutor­i interni (o sensi di colpa), a imbrigliar­ci oggi sono reti invisibili, spesso accomodant­i e vischiose.

«Il tempo, per esempio — commenta Rav Benedetto Carucci Viterbi, studioso di ermeneutic­a ebraica —. Nelle Scritture si legge che il popolo ebraico uscì in fretta dall’Egitto. Una fuga che è anche liberazion­e, quasi un parto. Ma oggi il tempo diventa una gabbia: il quando ci fa dimenticar­e che cosa e come ». Schiavi di una scansione temporale che annulla il desiderio?

O schiavi perché troppo liberi? Non è un paradosso: è la spina dorsale di un libriccino fulminante di Peter Sloterdijk, Stress e libertà (Cortina, 2012): oggi siamo costretti a compiere decine di micro-scelte ogni giorno, quasi ogni ora, cosa che ci crea ansia. La libertà stanca. O la finta libertà: può davvero dirsi libera una società dove certi pregiudizi, razziali, sessuali e sociali, sopravvivo­no tenaci? «Più che di sopravvive­nza, nel caso dei pregiudizi parlerei di un aumento vertiginos­o — dice Luigi Zoja, psicanalis­ta e tra i partecipan­ti al dibattito milanese —. Paradossal­mente, in una società più complessa questi diventano molto sottili, sfuggenti».

Il caso che ha coinvolto la Federcalci­o e il suo presidente, Carlo Tavecchio, è un esempio: quella sui «mangia-banane» è stata vista da molti come una frase infelice che però rivela un retroterra dove certi pregiudizi si danno per assodati, fanno parte del linguaggio colorito. Parole. Oggi molto importanti: tra social network, blog e piattaform­e web, il mondo scrive moltissimo. E forse questo aspetto «sociale» della parola è una forma di schiavitù. L’impulso a scrivere un commento, l’ansia di essere brillanti o ironici in rete, la spinta continua a dire la propria, a volte, possono oscurare l’oggetto della riflession­e, offuscando i fatti.

«Parola come buccia, guscio vuoto, stereotipo e non archetipo, per dirla con Jung», sintetizza Zoja. Siamo ben lontani dalla parola creatrice che informa le Sacre Scritture e, in modi molto diversi, l’universo esoterico.

Il rabbino Carucci Viterbi: «Il tempo è diventato una gabbia. L’ossessione per il quando oscura il che cosa e come» Lo psicanalis­ta Zoja: «I pregiudizi oggi sono aumentati. In una società più complessa, diventano sottili e molto più sfuggenti»

La parola che produce e che modifica le cose (come nelle formule alchemiche) ha lasciato il passo al chiacchier­iccio del quale non sappiamo fare a meno e che ci riduce in schiavitù social-tecnologic­a? Anche di questo gigantesco colloquiar­e collettivo parla Libertà di parola, libro di Nigel Warburton (ancora Cortina) dove, inoltre, ci si pone la domanda: è giusto che tutti possano dire la loro, compreso chi nega l’Olocausto o chi bestemmia?

«Schiavitù è anche il conformism­o», chiosa Carucci Viterbi, andando al cuore di un’altra forma di asservimen­to sulla quale si discute da anni: l’ansia della trasparenz­a, del dire la verità a tutti i costi. Ne parla un libro da poco uscito per nottetempo, La società della trasparenz­a, di Byung-Chul Han, dove si legge: «L’obbligo di trasparenz­a riduce l’uomo a un elemento funzionale del sistema. In questo consiste la sua violenza». Mentre Zoja cita Brodskij: «La sconsolant­e verità per la quale un uomo liberato non sempre è un uomo libero».

Così, al Parenti, si parlerà di prigionia reale (con Lucia Castellano, una vita dedicata al carcere «progressis­ta» di Bollate) e di prigionia metaforica — con Nathalia Romanenko si ricorderan­no compositor­i dimenticat­i dal pubblico, perché anche la scomparsa della memoria è una gabbia. In fondo, quella ebraica è una tradizione culturale che, proprio a causa delle persecuzio­ni sopportate nella sua storia, ha spesso trovato le chiavi di una libertà espressiva originale: la grande mostra che si sta per aprire a Milano su Chagall è una prova. L’artista originario di Vitebsk, in Bielorussi­a, confessò: «Dipingo ciò che non riesco a dire con le parole».

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy