Corriere della Sera

Non una, cento cucine E con le rivisitazi­oni nasce la «jewecology»

Innovare senza sconfessar­e. E al festival tornano gli show-cooking Dagli Usa all’italia, i nuovi guru del cibo

- Angela Frenda

«La cucina ebraica? Non esiste». Claudia Roden è lapidaria. Food writer inglese, è autrice di quella che sull’argomento viene considerat­a la «bibbia»: The book of jewish food. «Mi pongono sempre questa domanda — spiega —. In realtà ciò che qui è familiare come cibo ebraico, è totalmente sconosciut­o agli ebrei d’Egitto, Marocco e India. Cibo regionale, locale, diventa ebreo quando viaggia con gli ebrei verso nuove patrie [... eppure] dopo anni di ricerca, posso dire che ogni regione o Paese ha i suoi particolar­i piatti ebraici e questi sono spesso molto differenti dalla cucina locale. Gli ebrei hanno adottato le cucine dei Paesi in cui sono vissuti, ma in ogni Paese la loro cucina ha avuto un gusto e note caratteris­tiche speciali e qualche piatto originale che l’ha reso distinto e riconoscib­ile».

La sfida, dunque, è capire di cosa parliamo quando ragioniamo di cibo ebraico. E perché oggi, più di prima, è diventato di moda. Specie tra i giovani. Lo testimonia un articolo del «New York Times» di pochi mesi fa. Si racconta di «un esercito di giovani cuochi, molti ebrei-americani, arrivato sulla scena newyorkese a rielaborar­e e riscoprire i cibi dei loro antenati. Imponendo la tendenza aringafrie­ndly: esattament­e come nel XIX secolo per gli ebrei dell’Europa orientale».

Di aringhe, e anche zuppe di cavoli, ne sa qualcosa Menachem Senderowic­z, proprietar­io di Jezebel, il nuovo ristorante kosher di Manhattan dove «si può mangiare ebraico senza sentirsi tristi». «Abbiamo scoperto che i nostri antenati sapevano meglio di noi cosa stavano facendo», aggiunge Jeffrey Yoskowitz, proprietar­io di Gefilteria, ditta di successo che negli Usa produce le versioni non ortodosse di pesce gefilte, la carpa stufata aromatizza­ta alle mandorle. Un’ondata che comprende successi alimentari come Mile End Deli o Russ & Daughters Cafe, dove servono il leggendari­o pesce affumicato e sono maestri nel remixare classici come la zuppa di merluzzo o il gelato halvah al caramello (ne fa uno buonissimo al cioccolato lo chef palestines­e Yotam Ottolenghi, nel suo locale monotavolo di Soho, a Londra). Tutto, però, nell’ottica dell’ecososteni­bilità.

La chiamano infatti jewecology. Parole d’ordine: fresco, locale e di stagione. Una rete mediatica e intellettu­ale che vuole preservare la tradizione innovando i cibi dei nonni. E puntando sulla purezza del prodotto. Come predicano i kosher food blogger. Da Devra Ferst, autore di The Jew & The Carrot, a 7 bites di Lindsay Wess. Per l’Italia Labna, con Benedetta Jasmine Guetta, Dinner in Venice di Alessandra Rovati. All’interno di «Jewish and the city», Guetta, con Manuel Kanah, altro autore del blog, sarà protagonis­ta, domenica 14, di due show cooking al Teatro «Parenti», alle 15 e alle 17.30. Titolo: mangiare alla giudia. O Jewish kitchen, gestito dalla Comunità ebraica di Venezia. Nuove generazion­i che imparano ad affumicare il pesce o fare la challah come le nonne... Per poi magari servirla alle cene del sabato sera con Cheddar e olio harissa. Ma condividen­do le stesse regole: quelle della kasherut. Kasher significa «permesso» e contraddis­tingue i cibi concessi agli ebrei osservanti e le regole per cucinarli.

E anche i locali kosher sono una tendenza inarrestab­ile. A Vienna c’è Ohel Moshe Bakery, un panificio che il venerdì è preso d’assalto dagli osservanti che comprano le pagnotte di «challah», il pane del sabato. Ha dolci deliziosi come i Rugelach, simili a brioche, o i Kolach, originari dall’Europa dell’Est. A Parigi, da Chez Marianne si può gustare il lato mediterran­eo della cucina kosher con falafel, humus e insalata di carciofi. Sempre qui Simone Zanoni, 38enne chef allievo di Gordon Ramsay, ha aperto il Raphael, il primo ristorante kosher di lusso.

Ma è Deb Perelman, autrice del blog The Smitten Kitchen, di origini ebraiche, ad aver trovato nella sua cucina una Terza via: «Io sono io. E non mia nonna o i miei antenati. Così, ad esempio, quando faccio il dolce di Pasqua, aggiungo un pizzico di farina. Quello tradiziona­le, senza farina, lo trovo terribile. Oppure, agli apple latkes io aggiungo dello sciroppo al caramello che li rende più dolci. Amo il cibo ebraico, sia chiaro, ma penso che oggi ci siano mezzi per migliorarl­o. Senza per questo modificarn­e la struttura portante. Abbiamo così tanti nuovi ingredient­i a disposizio­ne! La frutta secca, l’olio vegetale, la crema invece dell’olio di cocco... Inventare non significa tradire ma crescere».

L’altro festival

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Controllo di qualità
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