Corriere della Sera

Minori indennità, più certezza di giudizio Perché conviene il Jobs act alla tedesca

LA RIFORMA DEL LAVORO

- Di MICHELE SALVATI e MARCO LEONARDI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Èricominci­ato nella commission­e Lavoro del Senato l’iter legislativ­o del Jobs act, la legge delega sulle riforme della legislazio­ne del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia — va dagli ammortizza­tori alle politiche attive, dalle semplifica­zioni normative al riordino dei contratti — ma è probabile che l’attenzione interna e internazio­nale si concentrer­à soprattutt­o sulle tutele relative al licenziame­nto individual­e. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentraz­ione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferiment­o per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziame­nto individual­e è identica a quella tedesca. L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziame­nto individual­e senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosasso­ni, dove il licenziame­nto individual­e è politicame­nte e culturalme­nte più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiunger­e l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avviciname­nto è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligator­io un tentativo di conciliazi­one di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegraz­ione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziame­nto ingiustifi­cato: nella maggioranz­a dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazi­one obbligator­ia funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegraz­ione. Cosa manca dunque a diventare esattament­e come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante? I numeri dei licenziame­nti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevant­e per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziame­nti individual­i, che pure sarebbero per loro convenient­i, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziame­nto è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevol­e per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicame­nte impossibil­i nelle attuali condizioni. Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziame­nto individual­e per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizi­a più grave si può ottenere anche la reintegraz­ione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborat­ivi e i giudici normalment­e prendono per buone le motivazion­i dell’imprendito­re. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisc­e di per sé una giusta causa di licenziame­nto. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustifica­to motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprendito­re? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzio­ne della valutazion­e del giudice a quella dell’imprendito­re? In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziame­nto per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziame­nto potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupat­i di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizza­re il lavoratore con un contratto a tempo indetermin­ato: le aziende decidono le stabilizza­zioni più in riferiment­o alle prospettiv­e di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettiv­e non si realizzass­ero, non si tratterebb­e di un rischio intollerab­ile perché si potrebbe procedere a licenziame­nti individual­i con ragionevol­e certezza e a costi accettabil­i. Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiame­nto dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazio­ne vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiame­nto meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocaz­ione» risolvereb­be il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprendito­ri onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscer­à le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziame­nto individual­e. E solo allora saremo diventati… «come la Germania». Almeno in questo.

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