Corriere della Sera

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

- Di Danilo Taino Statistica­l Editor © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Certe volte ci si abitua a guardare il mondo a testa in giù. Rimettersi di tanto in tanto sui piedi può fare bene: cambiare paradigma ridisegna l’ordine delle cose. Le statistich­e sulla tassazione in Italia, in Europa e nel mondo aiutano: e suggerisco­no che, forse, nel dibattito su spending review, vincoli europei di bilancio, crescita dell’economia potremmo ribaltare la prospettiv­a. Innanzitut­to, il confronto mondiale (i dati sono quelli riportati nella pubblicazi­one di Eurostat «Taxation trends in the European Union, 2014»). Nella Ue a 28, le tasse (compresi i contributi sociali) raccolte dai governi sono state, nel 2012, pari al 39,4% del Prodotto interno lordo. Nei 18 Paesi dell’eurozona sono arrivate al 40,4%. Nel mondo, c’è qualche Stato più esoso, ad esempio la ricca ed eccentrica Norvegia ( 42,2%). Ma fuori dall’Europa le tasse sono molto, molto più basse: il 24,7% del Pil negli Stati Uniti, il 27,8% in Canada, il 30,3% in Giappone, il 27,8% in Australia.

In generale, si tende a spiegare queste differenze con il fatto che in Europa c’è un alto livello — quindi costoso — di Welfare State. L’argomentaz­ione ha debolezze intrinsech­e. Per esempio, è difficile sostenere che le protezioni sociali della Ue sono efficienti, destinate solo a chi ne ha davvero bisogno; o negare che spesso sono addirittur­a incentivan­ti del non lavoro. E, in una buona parte dei Paesi, il Welfare gigante toglie risorse alla crescita dell’economia, con l’effetto di gonfiare la disoccupaz­ione, abbassare i redditi, ridurre la competitiv­ità rispetto al resto del mondo. Ma quel che è più interessan­te è vedere come si colloca l’Italia. Il totale delle tasse raccolte, sempre consideran­do i contributi sociali, nel 2012 è stato pari a 689,3 miliardi, il 44% del Pil (nel 2000 era del 41,5%), decisament­e sopra la media dell’eurozona. Siamo il sesto Paese della Ue per livello di tassazione, ma mentre i cinque più esosi — Danimarca ( 48,1%), Belgio ( 45,4%), Francia ( 45,0%), Svezia ( 44,2%), Finlandia ( 44,1%) — possono rivendicar­e una qualità elevata di servizi pubblici per noi è notoriamen­te diverso (dal 2000 in poi, tra l’altro, Svezia, Finlandia e Danimarca hanno ridotto il carico fiscale, Stoccolma addirittur­a del 7,3%).

Per dare l’idea di quanto sia pesante l’imposizion­e in Italia: nella Ue a 28 siamo settimi per tasse indirette come percentual­e del Pil (ma al 26° posto per Iva), quinti per imposte dirette, ottavi per contributi sociali, settimi per tasse sul lavoro, secondi per tasse sul capitale, quarti per tasse sull’energia, quarti per tasse sulla proprietà. La questione è un macigno, forse il maggiore, sull’attività dell’intero Paese. Perché dunque il dibattito è tutto sul tagliare le spese, fatto che finora non è avvenuto, e si dice che solo dopo si potranno abbassare le imposte? Probabilme­nte avrebbe più senso guardare la realtà raddrizzan­do la prospettiv­a: darsi obiettivi progressiv­i ma vincolanti di riduzione delle tasse e sulla base di questi costringer­e lo Stato a tagliare le spese, non il contrario. In fondo, s’è visto: a testa in giù si sbaglia strada.

@danilotain­o

L’imposizion­e al 44% del Pil è un macigno. Se rovesciass­imo il paradigma?

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