Corriere della Sera

Sacconi: la riforma del lavoro? Una svolta Come l’abolizione della scala mobile

Il relatore: paradossal­e che sia Ncd a fidarsi di Renzi e non il Pd, partito del premier

- Enrico Marro

ROMA — Per Maurizio Sacconi si tratta della riforma che potrebbe segnare una svolta paragonabi­le a quella del 1984 sulla scala mobile (il congelamen­to del meccanismo di indicizzaz­ione automatica dei salari). «Riforma con un contenuto economico, ma che ha segnato anche mutamenti culturali». Adesso, il superament­o dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello sui licenziame­nti senza giusta causa, non solo «incoragger­ebbe gli imprendito­ri ad assumere», dice Sacconi, ma darebbe anche a livello internazio­nale il segnale che in Italia si sia finalmente «affermata una cultura favorevole all’impresa e al lavoro, al posto di quella ostile degli anni Settanta». E Sacconi, non è solo ex ministro del Lavoro, ma presidente della commission­e Lavoro del Senato, dove l’esame del disegno di legge delega Poletti, il cosiddetto Jobs Act, sta entrando nel vivo, e relatore di maggioranz­a dello stesso provvedime­nto, l’uomo quindi che deve presentare gli emendament­i concordati col governo. Solo che sull’articolo 18 l’accordo non c’è, perché il Pd è contrario a toglierlo, come invece chiede il Nuovo centrodest­ra, di cui Sacconi è anche capogruppo al Senato.

Perché insistete?

«Perché è una riforma per fare lavoro e produttivi­tà. Siamo gli unici in Europa ad avere l’articolo 18. Ma sarebbe anche banco di prova sul quale misurare la trasformaz­ione in senso socialdemo­cratico del Pd e occasione per un centrodest­ra che voglia ritrovarsi senza essere populista. Dopo varie incertezze in Forza Italia, Renato Brunetta ha detto che sono pronti a convergere su questo e sulla delega fiscale. Sarebbe importante».

Perché togliere il reintegro al lavoro in caso di licenziame­nto senza giusta causa è una riforma necessaria?

«Tutte le istituzion­i internazio­nali, dal Fondo monetario all’Ocse, dalla Commission­e alla Banca centrale europea, segnalano la necessità di combinare l’ossigeno che verrà dall’allentamen­to della politica monetaria con le riforme struttural­i e indicano per l’Italia

In Europa Siamo gli unici in Europa ad avere l’articolo 18

la priorità assoluta del mercato del lavoro. Si tratta di avere il coraggio per esempio della Germania nel 2003 del cancellier­e socialdemo­cratico Gerhard Schröder con le riforme Hartz e in Spagna l’anno scorso. Tutte riforme nel segno della maggiore flessibili­tà».

Perché il testo attuale del disegno di legge delega non vi soddisfa?

«Perché manca la riforma dello Statuto dei lavoratori e comunque non si può riformare tutto tranne l’articolo 18. Lo Statuto è del 1970, ma codifica leggi e contratti degli anni Cinquanta e Sessanta. Quindi è vecchio non solo anagrafica­mente, ma riflette un contesto sociale ed economico stabile in cui vi era l’illusione dello sviluppo infinito. Noi vogliamo che nella riforma sia inserita la delega al governo a riformare tutto lo Statuto. Comprese la possibilit­à di licenziare in cambio di un adeguato indennizzo economico; la possibilit­à di attribuire al lavoratore mansioni inferiori se questo risponde a esigenze produttive; l’eliminazio­ne del divieto delle tecnologie di controllo del lavoro a distanza che inibisce il telelavoro».

Il Pd è contrario e anche dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, non sono arrivate aperture. Come pensa di superare questi ostacoli?

«È incredibil­e che il Pd sia contrario a una delega ampia, dicendo che non si fida. Ma come, è stato Renzi a dire che bisogna cambiare lo Statuto e lui è anche segretario del Pd, così come del Pd è Poletti. Insomma il paradosso è che noi siamo disposti a fidarci più di quanto lo sia il Pd. Tocca a Renzi sciogliere il nodo in coerenza con se stesso».

Che cosa accadrebbe, secondo lei, se passasse la vostra proposta?

«Le imprese avrebbero un quadro regolatori­o più semplice. In particolar­e la certezza della possibile risoluzion­e del rapporto di lavoro e del suo costo con l’effetto di una maggiore propension­e ad assumere nell’epoca dell’incertezza».

E poi chi aiuterebbe il licenziato a ritrovare un lavoro?

«La maggiore flessibili­tà si deve coniugare con la migliore formazione spostando la spesa dalla offerta alla domanda: si dia al lavoratore un voucher che liberament­e può spendere presso il centro di orientamen­to, collocamen­to o formazione che sceglie, pubblico o privato che sia, e a risultato ottenuto il voucher viene incassato dal centro».

Lei ha citato il modello tedesco. Lì il successo è fatto anche di milioni di minijob, lavoretti a 450 euro al mese. È questo il futuro?

«No. Ma aiutano a non essere inattivi. In Italia i minijob ci sono già con i “buoni lavoro”, ma ne va estesa e semplifica­ta la possibilit­à. Così come dobbiamo spingere sull’apprendist­ato per chi lascia la scuola rendendolo possibile già dall’età di 14 anni, anziché di 15. Più in generale dobbiamo rivalutare il lavoro manuale e la integrazio­ne tra scuola e lavoro. E, secondo il modello tedesco e spagnolo, considerar­e comunque l’azienda il baricentro del dialogo, della naturale collaboraz­ione tra imprendito­re e lavoratori, ove si adattano le regole, si decidono i salari, si realizzano protezioni sociali integrativ­e».

Secondo lei l’articolo 18 andrebbe tolto solo per i neoassunti o per tutti.

«Si vedrà con i decreti delegati».

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