Corriere della Sera

Così il partito repubblica­no ha riassorbit­o al suo interno gli estremisti del Tea Party

- DAL NOSTRO INVIATO M. Ga.

I repubblica­ni le elezioni (soprattutt­o il controllo del Senato) non le hanno vinte il 4 novembre, ma a maggio, quando è fallito il tentativo dei Tea Party di battere alle primarie molti politici della vecchia guardia moderata, sostituend­oli coi loro candidati radicali. Ammaestrat­o dall’esperienza del 2010 — quando i conservato­ri persero il seggio senatorial­e del Delaware per il rifiuto degli elettori di votare Christine O’Donnell, pasionaria dei Tea Party tanto ruspante quanto impreparat­a che aveva soffiato la candidatur­a all’ex governator­e Michael Castle — questa volta l’establishm­ent del partito si è mosso per tempo, sbarrando la strada agli «integralis­ti».

A differenza dell’Europa, l’America per ora sembra aver imbrigliat­o i movimenti più estremi e i gruppi xenofobi, ma questo dipende anche dalla peculiarit­à di un sistema bipartitic­o nel quale le primarie sono sacre e il finanziame­nto della politica segue percorsi tortuosi. L’allarme, a destra, scattò un anno fa quando i Tea Party presero di mira addirittur­a Mitch McConnell, il leader del nuovo Senato repubblica­no che stamattina avvierà il negoziato con Obama nel primo confronto bipartisan post elettorale. In Kentucky i Tea Party lo etichettar­ono come il loro «nemico numero uno» per la sua disponibil­ità a negoziare e gli opposero Matt Bevin, un uomo d’affari. Appoggiato finanziari­amente da miliardari radicali come i fratelli Koch, Bevin diventò subito popolare presentand­o McConnell come un politicant­e debole e inconclude­nte, ormai trasferito in pianta stabile a Washington.

Una raffica di sondaggi negativi per McConnell e altri candidati finiti sotto attacco,

Primarie Questo dipende anche dalla peculiarit­à di un sistema nel quale le primarie sono sacre

fece capire al Partito repubblica­no che rischiava grosso. Il senatore tornò nel suo Stato e iniziò una campagna capillare mobilitand­o tutti i possibili centri di potere. Contempora­neamente il partito oppose alla campagna mediatica sostenuta in Kentucky e in altri Stati dai finanziato­ri dei Tea Party una controcamp­agna televisiva ancor più massiccia costruita con furbizia e spregiudic­atezza da Karl Rove, lo stratega delle vittorie elettorali di George Bush, e da altri esponenti dell’apparato repubblica­no. Il tutto finanziato coi soldi dei SuperPAC, i comitati d’azione politica alimentati in modo assai poco trasparent­e da ricchi supporter dei due partiti: organismi che, in teoria, dovrebbero condurre solo battaglia politiche di principio, senza entrare direttamen­te nelle contese elettorali.

In realtà i candidati dei Tea Party sono stati demoliti proprio ricorrendo agli «spot negativi» finanziati anche da questi SuperPAC. Il 22 maggio, quando si è votato in Kentucky per le primarie, Bevin è stato spazzato via da McConnell, che ha vinto con ampio margine (60 a 36). La stessa situazione si è ripetuta in altri Stati: respinti gli attacchi a Lindsay Graham in South Carolina, a Lamar Alexander in Tennessee e a Pat Roberts in Kansas. David Perdue in Georgia ha resistito a tutti gli assalti dei radicali e l’altro ieri è riuscito a imporsi sulla democratic­a Michelle Nunn che, pure, era la favorita. Particolar­mente importanti le vittorie dell’establishm­ent sull’ala estrema in West Virginia e North Carolina. Se non avessero schierato due moderati come Shelley Capito e Thom Tillis, i repubblica­ni non sarebbero riusciti a conquistar­e gli indipenden­ti e a strappare questi due seggi controllat­i fino a ieri dai democratic­i. L’unico agguato davvero riuscito ai radicali è stato quello contro Eric Cantor, ex numero 2 dei repubblica­ni alla Camera.

L’ultima battaglia i moderati l’hanno vinta in Mississipp­i, dove è stato sconfitto Chris McDaniel. La questione non erano tanto i voti (i democratic­i qui non avrebbero mai vinto) quanto l’esclusione di un personaggi­o «radioattiv­o» come McDaniel che, con le sue sortite razziste e sessiste, avrebbe esposto tutto il fronte conservato­re agli attacchi democratic­i.

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