Battuto in casa Barack gioca la carta estera
Barack Obama voleva lasciare in eredità ai posteri un’America profondamente rinnovata nelle sue istituzioni politiche ed economiche, cambiando tasse, welfare e politiche per l’immigrazione. E’ riuscito a farsi approvare solo una mezza riforma sanitaria che i repubblicani, appena conquistata la maggioranza nei due rami del Congresso, hanno detto di voler cancellare. Anche se nel vertice di oggi cercherà di ricucire un minimo di dialogo coi suoi avversari politici, è chiaro che il presidente non può darsi grandi traguardi per i suoi due ultimi anni alla Casa Bianca, almeno all’interno. Come previsto dagli analisti, non gli rimane, quindi, che puntare sulla scena internazionale doveva, dall’Isis all’Ucraina, alla diffusione di Ebola in Africa, non mancano certo i problemi che richiedono un intervento degli Stati Uniti. Riuscirà Obama ad esercitare la sua leadership in modo più efficace? Il test iraniano, con l’ormai prossima scadenza del negoziato con Teheran sul nucleare (24 novembre) arriva al momento giusto e il presidente sembra molto determinato a cogliere questa opportunità, come dimostra la lettera da lui inviata alla guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ben prima delle elezioni Usa. Gli astri sembrano allineati come non sono mai stati in passato: c’è un presidente, Rouhani, sicuramente favorevole a un accordo che presenta ai suoi stessi concittadini come inevitabile. Le sanzioni, applicate con fermezza dal Tesoro Usa, stanno funzionando e la forte caduta del prezzo del greggio mette in ginocchio l’economia iraniana e rende insostenibile il debito pubblico del Paese. Ma, soprattutto, Usa e Iran hanno ormai un nemico comune da combattere: l’Isis. Con tutto questo, Obama, ormai in partenza per un lungo viaggio in Asia e per il G20 australiano, ha margini ristrettissimi: trattare con una teocrazia rivoluzionaria è sempre compito proibitivo, Israele e i Paesi arabi sunniti sono ostili a questo dialogo e, soprattutto, i repubblicani sono pronti ad accusare il presidente di aver fatto concessioni eccessive.