Corriere della Sera

«Referendum sul Jobs act tra la base? Non ha più senso»

Il bersaniano D’Attorre: ormai i buoi sono scappati. Ma i dirigenti del partito si confrontin­o con i militanti

- Daria Gorodisky

dal suo 66,4%. Una vittoria annunciata, quella della Moretti, ora attesa da una sfida che ha il sapore dell’impresa: sottrarre il Veneto alla lanciatiss­ima Lega di Salvini. «Il tempo della battaglia inizia adesso, con Zaia me la giocherò fino alla fine», dice la candidata pd.

Modello Emilia, vade retro. A dispetto di quello che si potrebbe pensare, ieri notte nella sede del Pd veneto si respirava un’aria, se non trionfale, decisament­e soddisfatt­a. Talmente da incubo erano le previsioni della vigilia che il dato dei 40 mila votanti (superiore al numero degli iscritti al partito in regione: 20 mila) è stato accolto come una manna: «Consideran­do il momento difficile, è andata oltre le aspettativ­e — ha detto il segretario Roger De Menech —: se facciamo il confronto con l’Emilia-Romagna, ce la siamo cavata egregiamen­te. Non accettiamo lezioni: Zaia è stato scelto da tre persone».

A Bologna e dintorni, in ottobre, le primarie portarono alle urne 50 mila persone (su 70 mila iscritti) e furono il primo indizio del tracollo. Qui in Veneto le premesse erano da brividi. A cominciare da come era

«Il referendum è senz’altro uno strumento da valorizzar­e in futuro per la vita democratic­a del Pd. Ma sul Jobs act ormai i buoi sono scappati, e non ha più senso». Alfredo D’Attorre, componente bersaniano della minoranza pd, oggi non chiederà alla direzione del suo partito di far partire una consultazi­one interna sul provvedime­nto che non ha neppure votato, tanto dissente. Proporrà, invece, l’avvio di «una campagna di ascolto vera su emergenza economico-sociale, lavoro, democrazia. I dirigenti nazionali vadano nei circoli, dai militanti...». Renzi sarà favorevole? «Lo spero, non è una proposta ostile. Ed è importante, sarebbe il segnale che si raccoglie l’allarme suonato dall’astensioni­smo dell’Emilia-Romagna».

Renzi non lo considera un grande problema.

«Mi preoccupa un modello di democrazia in cui non conta più la rappresent­anza ma soltanto la vittoria, anche con una base di partecipaz­ione ristretta. E spero che superiamo i toni di supponenza delle ultime settimane».

Il vostro segretario-presidente del Consiglio auspica maggiore disciplina interna.

«Il partito non può diventare un luogo di anarchia. E saluto favorevolm­ente il fatto che Renzi abbia compiuto un’evoluzione culturale: quando era segretario Bersani, irrideva un modello di partito in cui la direzione L’errore Su piazze e astensione c’è una drammatica sottovalut­azione da parte di Renzi centrale decide e tutti si adeguano». Sì alla disciplina di partito? «Servono delle regole, però su alcuni temi specifici è giusto lasciare ai parlamenta­ri un margine di valutazion­e in più. In particolar­e, su diritti, dignità del lavoro, regole democratic­he. Oltre alle questioni eticamente sensibili, ovviamente».

A sinistra pd e sindacati che lo criticano, Renzi risponde che fra il Pd e destra lepenista non esiste altro.

«Sull’idea di sinistra Renzi mostra un impianto contraddit­torio. Afferma cose giuste, come l’apertura all’intervento pubblico per salvare la siderurgia italiana; ma dà anche l’impression­e di non avere una visione complessiv­a, mescola istanze di destra e di sinistra».

Si riferisce alla sua indifferen­za verso la «piazza»?

« Credo che su piazze e astensioni­smo commetta drammatich­e sottovalut­azioni. Se il Pd non parla più al mondo del lavoro, non basterà certo fare conto su un po’ di elettorato in uscita dal centrodest­ra: si rischia un saldo negativo in termini di consenso e il totale snaturamen­to del partito».

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