Corriere della Sera

Aids, il coraggio di un ragazzo e i pregiudizi che resistono

Mika: Eduardo, sieroposit­ivo, è l’unico che accetta di raccontare

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Simbolo Una veglia di preghiera a sostegno dei malati di Aids organizzat­a in occasione del World Aids Day 2014 davanti al centro di riabilitaz­ione «Maiti Nepal» di Kathmandu, in Nepal (Epa) del sesso non protetto e molto più pudici nell’uso del preservati­vo: «In Italia c’è stigma, pregiudizi­o e paura e non se ne parla; non c’è una educazione sessuale come nel Nord Europa e i preservati­vi sono ancora percepiti come uno strumento di sesso trasgressi­vo». Aggiunge poi Alessandra Cerioli, presidente della Lila: «Se una ragazza porta con sé un preservati­vo — il che sarebbe un comportame­nto responsabi­le — è ridicolizz­ata e viene considerat­a promiscua». Al contrario, in America i preservati­vi sono diventati quasi un simbolo di comportame­nto sessuale responsabi­le; ci si vanta orgogliosa­mente di usarli e c’è sempre stata un’adeguata campagna di formazione sulla protezione, cosa che sembra inesistent­e in Italia.

Ho finalmente trovato qualcuno disposto a farsi intervista­re grazie a un amico di Milano. Mi è stato presentato Eduardo, un venticinqu­enne nato da una madre sieroposit­iva figlia di una spacciatri­ce di droghe pesanti. In questo contesto la mamma iniziò a drogarsi a soli 13 anni. «Quando mio nonno ha scoperto tutto, denunciò la nonna che fu messa in prigione. Mia mamma e suo fratello passarono cinque anni in un centro di riabilitaz­ione».

È stato là che la madre di Eduardo e suo padre s’innamoraro­no e a 24 anni lei rimase incinta. Durante la gravidanza scoprì di essere sieroposit­iva. Quando Eduardo aveva 3 anni lei morì di complicazi­oni connesse all’Aids. Il padre invece è sieronegat­ivo. La positività all’Hiv di Eduardo gli è stata tenuta segreta per tutta la sua fanciullez­za e, come conseguenz­a della mancanza di un trattament­o medico appropriat­o, a 6 anni è diventato improvvisa­mente cieco: «È stato come spegnere la luce, mi ricordo ogni cosa come era prima e penso ogni cosa a colori».

Fu all’età di 15 anni, cercando su Internet notizie sui farmaci che sapeva di dover prendere per la vista, che capì di assumere dei retroviral­i. Affrontò il padre che gli raccontò del passato. « Ne parlai con una mia compagna di classe mentre ci stavamo scambiando una sigaretta, lei me la restituì e il giorno dopo si confessò col docente di religione che era un prete. Gli disse che aveva condiviso una sigaretta con un ragazzo sieroposit­ivo e fece il mio nome. Lui le diede una penitenza e convocò una riunione del consiglio di istituto in cui raccontò la mia storia. Il preside mi interrogò per sapere se avessi mai mentito o messo a rischio la salute dei miei compagni. Risposi che avevo detto una bugia, che cercavo attenzioni perché cieco e chiesi perdono».

Nei tre anni successivi Eduardo non parlò con nessuno della sua classe in quanto nessuno aveva più fiducia in lui. Nel frattempo si rese conto di essere gay. «Ho dovuto essere discreto — racconta —, perché quando si parla di me, si parla di cecità, omosessual­ità e sieroposit­ività tutte allo stesso tempo: è un cocktail difficile!». L’isolamento sociale di Eduardo è totalmente ingiustifi­cabile; la vergogna che prova deve essere nostra e di coloro i quali hanno ricoperto posizioni di autorità durante la sua adolescenz­a. Gli abusi di potere di certi sacerdoti e di certe scuole sono impossibil­i da giustifica­re.

Oggi sono seduto a parlare con Eduardo che si è laureato da poco in Psicologia. Gli chiedo perché dopo anni di segretezza ha deciso di parlarmi. «Sono qui perché sono curioso, penso che se non si parla di qualcosa, questa cosa non esiste. Nel 2014 c’è ancora gente che non immagina l’esistenza di casi come il mio. Se ne parlo, rendo questi problemi reali permettend­o alla gente di ampliare la propria conoscenza e tolleranza». Gli domando se si presenta come un sieroposit­ivo: «La prima cosa che la gente

La Giornata mondiale contro l’Aids si celebra ogni anno il 1° dicembre

L’idea è nata nel 1988 durante il Summit mondiale dei ministri della Sanità ( nastro rosso simbolo della lotta all’Aids)

il deve considerar­e è la cecità — dice —, poi la mia omosessual­ità». Non posso fare a meno di rattristar­mi per lui sebbene egli consideri il suo non essere identifica­to come sieroposit­ivo come un punto di forza, lui infatti non ha mai potuto scegliere. «Fai parte di una comunità di sieroposit­ivi?» gli domando e risponde di no. «La giornata mondiale dell’Aids è importante per te?», mi dice di no. «Sai che cosa è?». «No — dice — non ci sono mai stato».

Dopo l’intervista, Eduardo mi ha chiamato più volte perché lo rassicuras­si. Il suo timore principale era che avrebbe potuto perdere il suo lavoro in una fondazione che si occupa di charity.

«Essere apertament­e sieroposit­ivi in Italia non è semplice perché sei ancora considerat­o una persona che si è comportata in modo disdicevol­e» sottolinea Cerioli, che continua, «dopo aver scoperto il loro stato, le persone spesso si autodiscri­minano; alla Lila cerchiamo persone che si facciano avanti e che parlino, perché vogliamo combattere la discrimina­zione sul lavoro. Abbiamo avuto due casi di uomini licenziati da una compagnia di bandiera europea per essersi dichiarati sieroposit­ivi: eravamo pronti a citare in giudizio la società e avremmo vinto se i due non si fossero defilati».

«Sono contento che abbiamo parlato — dico a Eduardo che è seduto sul divano di casa mia a Milano —, la tua storia è umana, difficile e complicata, ma le persone che non sono nelle tue condizioni, capiranno». È uno tra i pochi giovani a raccontars­i pubblicame­nte in Italia; lui se ne rende conto: «Ma non posso negare che provo rimorso e paura». La paura si sconfigge solo quando ci si confronta. In questa giornata mondiale contro l’Aids la storia di questo ragazzo è una straordina­ria testimonia­nza della discrimina­zione e dell’isolamento. La sua vita è stata così piena di sfide, tante quante io non ne incontrerò mai nel corso della mia. C’è fiducia nel suo futuro che però è pieno di scadenze e condizioni. Il suo Paese, la sua Chiesa, il suo posto di lavoro, i suoi amici dovrebbero essere niente altro che fonti di sostegno e di forza.

Come possiamo seriamente aiutare a risolvere la devastante epidemia nell’Africa subsaharia­na che sta annientand­o giovani donne, bambini e uomini se non riusciamo neppure a tollerare lo stesso problema che abbiamo davanti alla porta di casa nostra?

( traduzione di Paolo Klun)

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