Una moneta parallela da affiancare all’euro La proposta che unisce Berlusconi e «Micromega»
Imondi non potrebbero essere più distanti, Berlusconi e Micromega, ma le parole sull’euro ora sono le stesse. Il Cavaliere, nel suo ritorno in piazza a Milano, ha parlato della necessità «di creare una seconda moneta, recuperando parte della nostra sovranità monetaria»: per far respirare l’economia — ha sostenuto — e liberarsi in patria dai vincoli europei. L’ipotesi avanzata dal leader di Forza Italia («anche noi — ha detto ai militanti — abbiamo delle idee sull’euro») è analoga a quella che un gruppo di economisti di sinistra — da Luciano Gallino a Stefano Sylos Labini — sta propugnando con appelli (sulla rivista Micromega) e convegni: «Per uscire dalla crisi e dalla trappola del debito — si legge — proponiamo di rilanciare la domanda grazie all’emissione gratuita da parte dello Stato di Certificati di credito fiscale. In questo modo si creerebbe una moneta nazionale complementare all’euro, e di conseguenza nuova capacità di spesa, senza però generare debito».
Dopo il fronte che chiede l’uscita dall’euro tout court (Lega, Movimento Cinquestelle, Fratelli d’Italia) ecco quindi una seconda opzione, più «morbida», ma sempre sintonizzata su quel vento anti euro che, secondo i promotori, soffia in tutto il continente. Per Forza Italia l’idea risponde, oltre alle ragioni economiche che l’avranno suggerita, anche a necessità politiche: la concorrenza di Matteo Salvini è incalzante e apparire come difensori della moneta unica di questi tempi non conviene. Per la sinistra lo scetticismo è una novità. Esclusiva fino a poco tempo fa di piccoli gruppi, il dubbio ha fatto strada se anche Stefano Fassina, che fu viceministro all’Economia con Letta, ha parlato di «superamento» della moneta unica. Il presidente del suo partito, Matteo Orfini, lo ha redarguito: «In Europa quella è la linea dell’estrema destra». Ma in politica i confini sull’euro sono ormai sempre più mobili, se perfino Berlusconi e Micromega dicono cose simili. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it ra le forme di ineguaglianza sociale c’è anche quella tecnologica. La prima e più nota forma di digital divide è quella geografica: la distanza, cioè, che separa i Paesi che hanno accesso a Internet veloce da quelli che non l’hanno. Secondo l’ultimo Ict Development Index, che classifica i Paesi in base alla dotazione e alla competenza digitale, l’Italia si piazza solo al trentaseiesimo posto, dietro a Paesi come Emirati Arabi, Qatar e Barbados. La Danimarca supera la Corea del Sud come Paese più connesso del mondo.
Una lettura attenta dei dati mostra però che, in realtà, il digital divide ha molte facce. Una è la dicotomia classica Paesi ricchi-Paesi poveri. Certo, Internet cresce ormai rapidamente in tutto il mondo, con 3 miliardi di persone online. Nel 2013 la diffusione del web è aumentata dell’8,7% anche nei Paesi in via di sviluppo, in cui vive il 90% delle persone prive di accesso alla Rete. Tuttavia le differenze Nord-Sud restano profonde.
Grandi sono poi le disparità tra i Paesi più avanzati ( ad esempio tra Scandinavia e Italia) ma anche all’interno dei singoli Paesi: un esempio clamoroso di digital divide è il fossato che separa le zone urbane e metropolitane dalle aree montane e rurali degli Stati Uniti. Tanto profondo da alimentare il già diffuso disincanto degli elettori verso l’amministrazione Obama.
Ma non meno drammatiche sono le distanze culturali nel «mondo avanzato». Questo secondo digital divide è particolarmente accentuato in Italia, dove molto poco, finora, è stato fatto per contrastare il fenomeno. Sul quale pesa di certo