Il diritto senza i compromessi: la giustizia come missione civile
Bisogna rassegnarsi all’evidenza e, a 4 anni dalla morte del giurista Vittorio Grevi, ammettere che un suo affettuoso collega peccò di ottimismo quando previde che la sua mancanza avrebbe «lasciato non un grande vuoto, ma un grande pieno». Non è andata così. Basta lo spettacolo appena offerto da un Parlamento incapace di uscire da logiche di stretta appartenenza politica nell’elezione dei giudici costituzionali di propria competenza, o nella designazione dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, per far ricordare anche agli smemorati la ragione per la quale il più autorevole processualpenalista italiano è sempre rimasto fuori dagli organi costituzionali.
Ostracizzato in politica da chi vedeva come fumo negli occhi il suo bagaglio scientifico non etichettabile. Ma nemmeno mai appoggiato da chi, su sponde allora d’opposizione, in fondo diffidava della sua autonomia di giudizio non piegabile ai diktat di partito o anche solo ai sussurrati «consigli» para-istituzionali. Non «affidabile» quanto quegli accademici che su ogni passaggio della vita pubblica centellinano le loro valutazioni a seconda di quanto la geometria del posizionamento li avvicini di più alla benevola riconoscenza di chi potrà avere voce in capitolo su un incarico agognato, una cattedra desiderata, una collaborazione editoriale prestigiosa.
Un azzeccato silenzio sui progetti di legge più sulla cresta dell’onda, o una parola in più di plauso al sciocchezzaio populista più in voga, non sono mai stati la specialità di uno dei tre soli italiani della «Fondation internationale pénale et pénitentiaire», professore di procedura penale in cattedra da ordinario a 29 anni, uno dei padri del nuovo codice, influente commentatore di questioni giuridiche su «Il Giorno» e dal 1988 sul «Corriere della Sera», autore di testi come Nemo tenetur se detegere e Libertà dell’imputato e Costituzione, fondatore e a lungo segretario dell’«Associazione tra gli studiosi del processo penale», direttore o condirettore delle riviste «Cassazione penale» e «Rivista italiana di diritto e procedura penale», curatore con Giovanni Conso di basilari commentari e compendi.
Degli oltre milla Scritti per il Corriere 1988-2010, in 22 anni di collaborazione con via Solferino, ora Simone Lonati, Carlo Melzi d’Eril, Paolo Renon, Paola Si tiene oggi a Milano presso la Sala Montanelli del «Corriere» (via Solferino), alle 18, la presentazione degli Scritti per il «Corriere» 1988-2010 di Vittorio Grevi, volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera (pp. 281, 14). Intervengono Virginio Rognoni, Armando Spataro e Simone Lonati. Coordina Luigi Ferrarella. Grevi sarà ricordato anche il 4 all’Università di Pavia (ore 21). De Pascalis e Adelaide Corbetta curano per le edizioni della «Fondazione Corriere della Sera» una raccolta di una sessantina di testi selezionati per temi omogenei. E per data: perché oggi son capaci tutti di registrare la morìa di processi causata dalle leggi che ne hanno accorciato la prescrizione, ma nel 2005 non erano tanti quelli che, all’interno dell’accademia, si esponevano senza timore nel prevedere con chiarezza che «il sistema processuale non riuscirà a reggere i nuovi e più angusti termini di prescrizione» e «per molti reati anche gravi sarà di fatto garantita l’impunità ai loro autori nell’impossibilità di concludere i giudizi nei termini abbreviati».
Grevi approfondiva il diritto penitenziario e portava già dentro le carceri i suoi studenti (molti dei quali oggi magistrati e avvocati dal proverbiale timbro di rigore e competenza) quando la giurisprudenza evolutiva di Strasburgo era lungi dall’imporsi, e quando spendersi per davvero per i diritti anche di chi è prigioniero calamitava le peggiori ondate di qualunquismo.
All’entrata in vigore del nuovo
Docente
Giurista e professore universitario, Vittorio Grevi era nato a Pavia il 2 settembre 1942. È morto il 4 dicembre 2010. A sinistra: illustrazione di Doriano Solinas codice fu tra i primi e tra i pochi a mettere in guardia dalle suggestione esterofile e dalla facile mistificazione di chi cianciava di processo «alla Perry Mason».
E quando nemmeno era immaginabile la transumanza di legioni di magistrati in politica, già nel 1989 additava l’indispensabilità di «uno statuto del magistrato» capace di dare ai cittadini «un segnale non equivoco che consenta ai magistrati di essere liberi dai condizionamenti», derivanti tanto dalla plateale appartenenza a partiti politici quanto alla più subdola «contiguità con centri di potere politico ed economico magari meno trasparenti di un partito politico». Perché in effetti c’è «una cosa semplice su cui tutti — scrive nella prefazione l’amico ed ex ministro della Giustizia e dell’Interno, Virginio Rognoni — possiamo consentire: davvero io credo che essere fedele al proprio lavoro, scrupoloso e continuo nello sforzo di studio e ricerca, sia già un primo e prezioso servizio che l’uomo di scienza offre alla sua collettività».
lferrarella@corriere.it