Corriere della Sera

«Chiamatemi pugile lo sport non ha sesso Sul ring sono a casa»

Davide: «Molto meglio la boxe della danza»

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«Chiamami pugile. Lo sport non è né maschio né femmina. È come lo vivi. Ci sono atlete che sembrano uomini, certo, ma è un problema loro. Io sul ring ci sono nata: per me, sempliceme­nte, è normale».

Se sia poi così normale, per una donna, prendere pugni in faccia e tornare a casa con il naso rotto è una questione che con Marzia Davide, 34 anni, campana di Pontecagna­no (Salerno), fresco argento al Mondiale di Jeju (Corea), è tempo perso affrontare. Arriva dagli sport di combattime­nto: praticava kickboxing quando il papà-coach Pasquale le propose di provare i guantoni della boxe. Il pugilato femminile in Italia era nato da un anno. «Il passaggio? Nessun problema: nel kickboxing usi calci e pugni, nella boxe solo i pugni. È più facile. Sei mesi dopo ero già argento iridato...».

Il 21 luglio 2001, quando il decreto Veronesi abolisce un divieto risalente al ‘71, Maria Moroni diventa la prima donna pugile tesserata in Italia. «Un tassello in più verso le pari opportunit­à» esulta la pioniera,

Ci sono atlete che sembrano uomini, certo. È un problema loro Naso rotto? Anche la ballerina sulle punte può spaccarsi la caviglia A Rio 2016 sogno una medaglia per dare popolarità a uno sport di valori

senza levare i dubbi agli scettici. Da allora, i numeri sono un po’ cresciuti (le donne sono il 10% circa dei 7 mila tesserati) ma le perplessit­à nei confronti di un’attività cui è servita una legge per diventare legale, e che è riuscita a sfondare l’ostracismo di Olimpia solo a Londra 2012, resistono. Marzia, che ha sfiorato l’oro che manca dal 2005 (Simona Galassi), prova a sfatare qualche tabù. «I cazzotti li do e li prendo, e il rischio di farsi male c’è. Da dilettanti, combattiam­o con il caschetto: al massimo sono scesa dal ring con il sangue dal naso o un occhio nero. Ma anche una ballerina sulle punte può spaccarsi la caviglia. Sono rischi del mestiere. La verità è che il pugilato è qualcosa che ho dentro: i sacrifici non mi pesano». Conciliare il ring e Giovanni Federico, che oggi ha 8 anni, però, all’inizio non è stato facile. Alla vigilia dei Giochi di Londra scoppiò una feroce polemica tra Marzia, che chiedeva di allenarsi a Pontecagna­no, e la Federazion­e, che le offrì invano un appartamen­to al centro tecnico di Assisi. «Mi hanno detto

In guardia La grinta di Marzia Davide, in azione sul ring (Afp) che sono più mamma che atleta» denunciò Marzia. Scelta sua, ribattè la Fpi, tra lettere velenose e accuse di discrimina­zione. Morale: a Londra la Davide, tre volte campioness­a europea, non andò.

Ricucito il rapporto grazie al nuovo c.t. Emanuele Renzini, il sogno è Rio 2016. «Voglio una medaglia per dare popolarità al mio sport. Il mio idolo è Alì, simbolo elegante della nobile arte. Prima di lui i pugili erano tutti rozzi. Non mi è mai piaciuto neanche Mike Tyson: un vero campione dovrebbe essere umile. Una certa cattiva reputazion­e della boxe la dobbiamo a lui: staccare a morsi l’orecchio dell’avversario è da le tesserate donne della Federazion­e italiana pugilato su un totale di 7 mila unità. Sono aumentate negli ultimi due anni animale che lotta per sopravvive­re, non da atleta».

I due bei bronzi arrivati a Jeju — la ravennate Terry Gordini nei 51 kg e la laziale Alessia Mesiano nei 57 kg — sono i potenti battiti di vita di un movimento piccolo ma combattivo, la cui vitalità si è riversata in un bello spot contro il femminicid­io: «Provaci con me!» dice

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