Corriere della Sera

La tregua è apparente Ma solo i due civatiani diranno no al Jobs act

- Monica Guerzoni

Per dire che il mondo va cambiato e non solo interpreta­to, Renzi ha citato Marx. Ma non ha convinto la sinistra del suo partito. La tregua è apparente, la minoranza pd non rinuncia a criticare il leader. E adesso che il patto del Nazareno è incrinato, l’opposizion­e interna chiede di riscrivere le regole del gioco. Fassina, Cuperlo, Bindi e compagni vogliono che i nominati spariscano del tutto dalla legge elettorale e chiedono modifiche alla riforma del Senato, che invece Palazzo Chigi considera blindata. E se domani i dissidenti voteranno il Jobs act a Palazzo Madama, sarà solo per non far cadere il governo.

A sera, quando la direzione nazionale vota l’ordine del giorno pensato dal Nazareno per ricompatta­re il partito sulle riforme, l’ala dura si smarca. Gli esponenti della sinistra lasciano la sala all’ultimo piano, mentre due civatiani votano contro. Ancora uno strappo, per marcare la distanza dalle politiche del premier. «Riunione surreale — commenta Alfredo D’Attorre —. Per lanciare un messaggio a Berlusconi ci viene proposto di votare le riforme come le vuole Berlusconi. È una contraddiz­ione». Ancora una volta la minoranza di Area riformista si divide, con i membri del parlamenti­no vicini a Speranza che votano a favore. Il leader assiste seccato alla scena in cui Cuperlo, Zoggia, D’Attorre, Pollastrin­i, Agostini, Fassina, Boccia e Miotto escono alla spicciolat­a, inseguiti dai commenti velenosi dei renziani che li accusano di sabotare le riforme. Ma i dissidenti assicurano che l’intento è costruttiv­o: migliorare l’Italicum e salvare la Costituzio­ne.

La sinistra boccia una analisi del voto che giudica «consolator­ia», accusando il segretario di «minimizzar­e». Per Cuperlo «il divorzio dalle urne di un numero così alto di elettori non è un accidente secondario» slegato dalle scelte di governo. Ma il punto nevralgico è la legge elettorale. Fassina invoca il «superament­o pieno delle liste bloccate » e sprona Renzi a «chiarire il quadro politico», visto che i rapporti con Berlusconi sono cambiati: «Che senso ha un odg sui tempi delle riforme quando non è chiaro il contesto politico?». E se Renzi ha detto che l’astensioni­smo non nasce dal Jobs act, l’ex viceminist­ro attacca: «Larga parte del nostro mondo non vede nella delega un avanzament­o su diritti e tutele».

I civatiani Mineo e Ricchiuti non voteranno il provvedime­nto, sottraendo (pochi) ma preziosi voti al governo. Il dissenso non dovrebbe andare oltre. Casson sembra orientato a votare e Tocci ha firmato il documento con cui 7 bersaniani hanno chiesto di poter discutere dei nodi ancora aperti, per non lacerare il Pd. Civati teme che sia il preludio a un sì e polemizza con le altre anime della

I numeri Se in Senato gli altri dissidenti voteranno a favore sarà solo per non far cadere il governo

minoranza. Ma il senatore Fornaro, che ha promosso il documento e si appresta a scriverne un altro assieme a Cecilia Guerra, aspetta il pronunciam­ento del governo: «Saremo responsabi­li anche in caso di fiducia, però non si abusi della nostra responsabi­lità». E Boccia teme che gli «effetti distorsivi del Jobs act provochino conflitti sociali». L’ultimo affondo è l’ordine del giorno di Zoggia per «promuovere una diffusa campagna d’ascolto» della base: il primo passo verso una conferenza programmat­ica in cui si discuta di statuto e natura del Pd. Il presidente Orfini ha disinnesca­to la miccia, accogliend­o l’ordine del giorno. Civati non ha firmato e ironizza: «È un documento troppo duro».

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