Corriere della Sera

Fili scoperti e fabbriche illegali La Prato cinese un anno dopo

Con gli ispettori della Asl nel distretto dove morirono in sette

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sprangati non c’è niente da fare. Li aiuta un’interprete italiana e le persone che si trovano davanti sembrano attori di una commedia con infinite repliche.

C’è un prestanome che non parla una parola di italiano e che prima di firmare i documenti legge il suo nome sulla carta d’identità, una giovane donna che sovrainten­de al lavoro degli operai, un autista robusto che fa anche da guardiano. Dopo una ventina di minuti arrivano anche i proprietar­i del capannone, pratesi purosangue che recitano anche loro una parte in commedia. Sono allarmati, insultano i cinesi, intavolano un dialogo con gli ispettori per dire che «li abbiamo avvertiti cento volte che qui non si deve dormire». Ufficialme­nte il canone d’affitto è di 1.300 euro al mese ma non si sa quanto passa in nero.

Prato è questa. Ieri in città si è celebrato l’anniversar­io. Conferenze stampa, riti religiosi, l’attore Shi Yang Shi che leggeva storie di immigrati, la cantante lirica Bei Bei che cantava Puccini. Ma la realtà resta quella dura di sempre. La lotta contro l’illegalità vista in presa diretta equivale a prosciugar­e il mare con un secchiello. Durante la settimana ai controlli preventivi degli ispettori sanitari si affiancano quelli «repressivi» di finanzieri, carabinier­i e poliziotti. I sequestri non fanno più notizia, tanto si sa che i cinesi hanno trovato il modo di saltare la burocrazia italiana. Aprire e chiudere le aziende in pochi giorni.

I pratesi temono i dormitori perché portano con sé bombole e rischi di esplosione e per questo gli ispettori scattano quando trovano pareti di cartongess­o che nascondono letti Nel 2013 La fabbrica tessile di Prato il giorno dopo l’incendio divampato il primo dicembre del 2013 e cucine. Le confezioni — si chiamano così i capannoni — producono i semilavora­ti che vanno a rifornire i pronto moda cinesi capaci di invadere di prodotti etichettat­i «made in Italy» i mercatini di Polonia, Lituania e Ucraina.

Ed è questa, per l’appunto, la prima conclusion­e che si può trarre dodici mesi dopo il rogo. Il modello di business del distretto cinese non è cambiato. Dopo la tragedia gli imprendito­ri asiatici più integrati avevano promesso «trasparenz­a» ma ci può essere un’industria cinese dell’abbigliame­nto low cost senza operai sfruttati, capannoni-dormitorio, affitti in nero? Finora, purtroppo, sembra di no, eppure in tanti in questi mesi si sono adoperati per cambiar strada.

I politici di profession­e non si sono nascosti e la pressione delle istituzion­i si è fatta sentire. Il guaio è che, per ora, non c’è un altro modello e finché non lo si troverà si girerà a vuoto. Si daranno alla stampa i numeri dei controlli, la mappa dei sequestri, si aumenteran­no gli ispettori ma accadrà che gli stessi imprendito­ri cinesi responsabi­li del rogo di un anno fa vengano intercetta­ti telefonica­mente mentre cercano un prestanome per ripartire, come se niente fosse accaduto.

In attesa di risolvere le questioni di business una novità va registrata: in città si comincia a parlare sempre più diffusamen­te delle complicità di tanti pratesi che vivono da piccoli rentier grazie all’illegalità cinese. Il processo per i morti del dicembre 2013 sta diventando il palcosceni­co di questa denuncia. Del resto se ci sono 4.500 ditte cinesi a Prato, ci sono altrettant­i capannoni e sono dunque tanti gli italiani che vivono di quegli affitti.

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