Una lettera aperta al «medico ignoto» che sta sfidando il virus Ebola e la nostra indifferenza
Dottore, non c’è il suo nome sui giornali, uno striscione sulla facciata di un municipio, un hashtag virale. Ma tutti hanno sentito parlare di Lei: «Il medico italiano infettato da Ebola». Il primo. Ad assisterla c’è un’intera équipe dell’Istituto Spallanzani di Roma, eppure l’Italia potrebbe sembrarle lontana, come per noi la Sierra Leone. È solo l’effetto di quel virus che s’è andato a cercare e a combattere all’ospedale di Emergency a Freetown, nemico che semina paura e solitudine? Conosce quel distacco, lo conoscono i 50 operatori italiani che lavorano nella terra di Ebola. Lei è l’unico a viverlo due volte: da medico con lo scafandro addosso, da paziente isolato da tutto. Quanto il suo desiderio di privacy è conseguenza della nostra paura? L’ultimo bollettino, numero 7, dice che le sue condizioni «sono lievemente peggiorate». «Il paziente ha ricevuto la seconda infusione di plasma di convalescente, respira spontaneamente». È un sollievo che sia «normale la funzione renale», anche se la prognosi «continua a essere riservata». Non dovrebbe essere riservata a parole di circostanza, la consapevolezza di quanto sia importante il suo lavoro tra gli appestati di Ebola. Un’epidemia che ha fatto settemila vittime ha spinto medici e infermieri da diverse parti del mondo a prendere un aereo controcorrente e atterrare in Liberia, Guinea, Sierra Leone. Tra malati che vomitano l’anima e il virus, sotto una tenda che spesso dell’ospedale ha soltanto il nome. È uno sporco lavoro. È come il fango da cui emergono i rugbisti Azzurri che tanto ci inorgogliscono. Ma la paura del contagio, pur giustificata, non deve rendere invisibile la Nazionale di chi si gioca la vita in un’emergenza umanitaria. E’ la squadra di un medico anonimo che in una stanza super asettica in queste ore sfida il virus e (anche) il nostro senso di distacco.
@mikele_farina Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it e reti di impresa all’italiana possono rappresentare un modello per la crescita in Europa, una best practice che si presta ad essere replicata ed estesa. A sostenerlo è l’Aip, l’Associazione italiana per le politiche industriali, che sta per lanciare in un convegno che si terrà a Milano giovedì 4 dicembre un ambizioso progetto su cluster e reti di impresa «per la ripresa della crescita e lo sviluppo dell’occupazione». I numeri che supportano il progetto Aip sono estremamente interessanti e sostengono che solo per l’Italia negli anni 2014-2020 potrebbero crearsi, coperti dal programma dell’Unione Europea in elaborazione, 880 mila nuovi posti di lavoro sulla base di merceologie e tecnologie esistenti. Spiega il presidente Domenico Palmieri: «Il Piano può rappresentare un progetto occupazionale a costo zero. Infatti il costo dell’incentivazione che dovrebbe essere prevista si potrebbe stimare in 500 mila euro per ciascuna rete e sarebbe ampiamente compensato dalla normale imposizione sull’aumento di fatturato, reso possibile dal recupero di competitività legato alla crescita dimensionale».
Ma facciamo un passo indietro. In Italia le reti di impresa seppur lentamente hanno preso ad attecchire. Secondo i dati dell’Osservatorio delle reti di IntesaSanpaolo al 1° ottobre 2014 risultavano registrati in Camera di commercio 1.770 contratti di rete in cui erano coinvolte 9.129 imprese. La Confindustria ha creato un’apposita task force ed è comunque convinzione comune che ci siano sia il bisogno sia le condizioni per accelerare. L’Aip, da parte sua, argomenta come in questa fase il fattore