«La mia asta da brivido per avere un Karapinar»
Tabibnia e i manufatti di un «romanzo» da Istanbul a Baku
«realtà presentata dai media, ovunque nel mondo, in un modo demagogico e frammentario che può solo accentuare la mentalità fanatica anziché portare alla comprensione».
Poi ci conduce in mezzo alla sala, lungo un’esposizione di tappeti appesi accanto a foto da lui scattate in un lungo viaggio da Istanbul a Baku. C’è il monte Ararat, c’è il confine TurchiaIran: «Qui sono nati i tappeti». Paesaggi militarizzati, spezzati da barriere, deturpati «dall’inquinamento, dal capitalismo eccessivo. Ma trovo che i confini imposti dagli esseri umani siano molto superficiali. Quando arrivi nel nord d’Israele, ti sembra naturale continuare il cammino, ma ti bloccano questi stupidi confini, questi campi minati fisici e mentali che sono un pretesto per politiche megalomani di incitamento all’odio».
Sotto la superficie delle barriere emergono intrecci più profondi. « Nel nordest dell’Iran, tradizionalmente sono le donne musulmane a tessere i tappeti. Invece le donne della comunità ebraica si occupano della tintura, mentre parte del commercio è in mano ai cristiani. Tre religioni monoteiste intrecciate in un modo creativo».
Il regista israeliano, non sempre capito in patria e «ferito» dalla propria regione (vive tra Haifa e Parigi), nota che «l’intero Medio Oriente sta diventando l’arena di una guerra, di una grande competizione per gli ardi iente meglio di un tappeto riesce a esprimere gli intrecci che legano l’uomo alla storia, alla sua cultura di provenienza e, in generale, alla vita. Ci riesce perché è un oggetto concreto, nato per assolvere a precise funzioni pratiche (così era soprattutto nel passato), che però racchiude profondi valori simbolici e spirituali legati all’uso anche religioso».
Moshe Tabibnia è uno dei massimi esperti e studiosi mondiali di tappeti antichi e la sua galleria di Milano, in via Brera, dove ha istituito un centro di studio, è considerata un punto di riferimento non solo dai collezionisti ma anche dai più prestigiosi musei internazionali. Sua è la selezione dei tappeti entrati a far parte dell’allestimento di Amos Gitai nella sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Regista e collezionista si conoscono da anni. «All’epoca, nel 2003, aveva destato scalpore la mia acquisizione di un prezioso Karapinar messo all’incanto ad Asheville, una città del North Carolina, a un prezzo irrisorio, circa 5 mila dollari», ricorda Tabibnia che ha iniziato a occuparsi di tappeti una trentina d’anni fa quando decise di lasciare Israele dove era cresciuto per trasferirsi a Milano. «Era un pezzo straordinario, databile almeno al XVI secolo, e probabilmente era un prototipo dell’esemplare diventato modello per tutti i tappeti tessuti successivamente nella città dell’Anatolia da cui prendono il nome. Ma nessuno alla casa d’aste ne aveva compreso l’importanza. Lo avevano colto benissimo, invece, gli altri collezionisti e galleristi presenti: dovetti combattere non poco per aggiudicarmelo». Alla fine ci riuscì «con un’offerta di 297 mila dollari. Allora, quotazioni simili per un tappeto erano un fatto piuttosto eccezionale, così la notizia
Massimo intenditore «Nel XV e XVI secolo i tappeti di Ushak, nell’Anatolia Occidentale, erano popolarissimi in Europa. Come dimostra anche il Tintoretto»
mamenti. Credo che si sia perso anche il motivo. Il conflitto è accelerato da tutti i partecipanti, nessuno è innocente. Tutti i Paesi del Medio Oriente hanno un qualche tipo di fanatismo nutrito dall’idea che solo un gruppo abbia ragione. Gli estremisti si sono sempre aiutati l’un l’altro: l’Isis, i fondamentalisti palestinesi, l’ultradestra israeliana forniscono giustificazioni gli uni agli altri. Per questo io cerco di fece il giro del mondo. Arrivò anche ad Amos, che proprio in quel periodo stava lavorando a una sceneggiatura ispirata al mondo dei tappeti e che volle conoscermi». I pezzi selezionati per la mostra sono tutti esemplari di straordinario valore, scelti da Tabibnia ricalcando l’itinerario compiuto dal regista da Istanbul a Baku alla ricerca delle ambientazioni per il film.
Nell’installazione, le fotografie scattate da Gitai nel viaggio sono accostate a tappeti antichi provenienti dall’Anatolia, dal Caucaso e dal l’antica Persia, fra cui un raro Ushak Tintoretto del XVI secolo, e un altrettanto raro Transilvaneo del XVII secolo. Oltre, ovviamente, al Karapinar. Ma rarità e preziosità non sono gli unici criteri che hanno guidato la selezione. Il tema dell’incontro mostrare le contraddizioni: fa capire che, se in qualche modo ognuno ha ragione, invece in altri modi non ce l’ha». L’artista per Gitai è un guaritore, come quelli che danzano per la pioggia, solo che lui vuol farci pensare. Ammette che l’arte non è il metodo più efficiente. «La mitragliatrice lo è di più. Ma qual è l’alternativa? Il nichilismo? Unirsi a Netanyahu e alle sue proposte xenofobe?», chiede riferendosi a una recente proposta di legge del suo premier, che definisce il carattere ebraico dello Stato d’Israele mettendo a rischio i diritti dei cittadini palestinesi.
Ci avverte comunque che non siamo nella migliore posizione per giudicare: «L’Europa ha dovuto bruciare l’intero continente per arrivare alla semplice conclusione che non c’era bisogno di uccidere. Sono sicuro che un giorno ci arriveremo anche noi, spero presto». Ci ricorda di non sottovalutare le utopie: «Dalla Bibbia al Marxismo hanno cambiato il mondo». Il dettaglio Moshe Tabibnia. A sinistra, un particolare del «Ritrovamento del corpo di San Marco» del Tintoretto (1561) con il santo sul tappeto con l’altro, dell’intreccio fra culture è il cuore dell’opera dell’artista israeliano. «Con Amos volevamo mettere in risalto il ruolo svolto dal tappeto come ponte fra civiltà diverse», spiega il collezionista. «Nel XV e XVI secolo, i tappeti di Ushak, nell’Anatolia occidentale, erano diventati popolarissimi fra la nobiltà europea. Un successo documentato dalle opere dei maggiori pittori del tempo. Nel Ritrovamento del corpo di San Marco, 1561, oggi alla Pinacoteca di Brera, il Tintoretto ritrae il corpo del santo disteso su un prezioso Ushak a piccolo medaglione: da qui il nome di Ushak Tintoretto ».
Mentre Transilvaneo rimanda a un modello con cui venivano addobbati gli interni delle chiese ortodosse, un uso diffuso dopo la conquista ottomana della regione nel XVI secolo, ma che è molto radicata ancora oggi come dimostra la collezione custodita nella Chiesa Nera di Brasov. «Fa riflettere che la “delocalizzazione” in un diverso contesto culturale e religioso non annulli il rapporto originario fra il tappeto e il sacro, ma lo rafforzi», conclude Tabibnia.