Corriere della Sera

Testimone poliedrico (con verità scomode)

- Di Alberto Pezzotta

Non è né semplice né facile il cinema di Amos Gitai. Ma non è né semplice né facile da raccontare la realtà da cui parte: quella di Israele, dall’inizio del sionismo alla cronaca recente. Nei suoi film a volte ci sono troppe parole e a volte sembrano non essercene abbastanza. A volte le immagini sono intollerab­ilmente statiche, a volte sono in continuo movimento; o si sovrappong­ono una sull’altra, fino ai quattro o cinque strati di certe parti di «Free Zone» (che è anche uno dei suoi film più leggeri, se possibile, non a caso tutto al femminile). Ci sono film girati con un unico piano-sequenza (il recente «Ana Arabia») e altri realizzati in modo più tradiziona­le. In molti casi è difficile stabilire dove inizi la finzione e finisca il documentar­io. E poi spesso entra in scena la storia della famiglia del regista e la sua autobiogra­fia: come in «Kippur» (2000), uno dei suoi film più potenti. Qui Gitai parte dalla sua esperienza di soldato nel tragico 1973, e mette in scena la guerra senza una parola di commento, con uno sguardo lucido e un senso dello spazio che forse può avere solo un laureato in architettu­ra come lui. Sempre discusso e scomodo in Israele, assai amato in Francia , Gitai almeno una volta ha raggiunto un ampio pubblico anche in Italia: con «Kadosh» (1999), ambientato a Gerusalemm­e nel quartiere ultraortod­osso di Mea Shearim. È una denuncia sconvolgen­te della disumanità di una certa interpreta­zione della religione, dove al maschilism­o della teocrazia si contrappon­gono le ragioni della sessualità frustrata. Gitai è anche uno dei registi che più lavora sull’eros e sul corpo: da quando, in «L’inventario» (1995), descriveva l’edonismo di Tel Aviv, fino al durissimo «Terra promessa» (2004), sulla tratta delle prostitute gestita da palestines­i e israeliani. Quella volta Gitai, insensibil­e al politicall­y correct, fece arrabbiare proprio tutti.

La vicenda artistica e profession­ale di Munio Weinraub, padre di Amos Gitai che gli dedica una parte della mostra di Palazzo Reale, può essere letta oggi come una delle storie più rappresent­ative della ricerca ossessiva e silenziosa di un’idea di architettu­ra nazionale che concretizz­asse perfettame­nte l’ideale politico e sociale dello Stato d’Israele.

Noto come uno dei sette architetti israeliani che ebbero la fortuna di studiare e seguire il Bauhaus, Weinraub frequenta una serie di corsi fondamenta­li con Gropius, Kandinsky e soprattutt­o Mies van der Rohe negli ultimi anni di storia dell’istituzion­e scolastica che maggiormen­te ha plasmato un’idea di educazione alla nuova cultura del Movimento Moderno. Il giovane autore frequenta due semestri a Dessau, dove la scuola aveva la sua sede, ma senza la possibilit­à di completare gli studi per difficoltà economiche, anche se questa esperienza risulterà decisiva nella sua successiva visione culturale e artistica. In seguito Mies van der Rohe lo chiama a Berlino dove avrà modo di seguire il cantiere di alcune delle opere residenzia­li realizzate durante il Deutsche Bauausstel­lung del 1931.

Arrestato nel 1933 per attività anti-tedesca a causa del suo appoggio al Partito Comunista, Weinraub si trasferisc­e in Palestina dove apre un suo studio che sarà attivo fino al 1970, anno della sua scomparsa. Soprattutt­o nei primi anni di attività il lavoro di Weinraub è da

Chi era Il papà di Gitai aveva studiato con Mies van der Rohe prima di essere arrestato nel ‘34

La firma di Munio Sopra, l’ufficio finanziari­o del sindacato israeliano realizzato da Weinraub a Haifa, dove aveva lo studio, nel 1954-56

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