L’Europa cresce se guarda se stessa
Formidabile reticolo di imprese, primo mercato del mondo: punti allo sviluppo interno
L’Europa che abbiamo costruito è un Paese di circa mezzo miliardo di persone. Si tratta, nella maggior parte, di cittadini istruiti, che vivono prevalentemente in centri urbani, mediamente ricchi, protetti da robusti sistemi di sicurezza che non hanno eguali in altre parti del mondo. Questi cittadini formano una massa di consumatori tra i più ricchi e i più evoluti del mondo, con modelli di vita articolati e complessi. Essi fanno dell’Europa il più grande e il più sofisticato mercato di consumo del mondo, perché in nessuna altra parte del pianeta c’è una simile concentrazione di consumatori evoluti.
L’Europa è anche il Paese con il maggior numero d’imprese: grandi, medie e piccole. Si tratta di un reticolo d’imprese strettamente interconnesso, con flussi di scambi articolati e anch’essi sofisticati. Queste imprese danno luogo a commerci e interrelazioni complesse, vendono sui propri mercati e all’estero, come dall’estero acquistano servizi e prodotti. Sono assistite e sono collegate a un fitto reticolo di professionisti che forniscono loro servizi e assistenza, costituendo di fatto un grande mercato intraindustriale.
Tutto questo fa dell’Europa il più grande, articolato ed evoluto mercato interno di tutto il pianeta. Con il 7% della popolazione mondiale e 17% del Prodotto interno lordo dell’intero pianeta, l’Europa è un motore che da solo può attivare una crescita poderosa. C’è da aspettarsi, dunque, che la crescita dell’Europa trovi nella sua domanda interna la molla di avvio per superare ogni difficoltà e per rilanciare la crescita.
Ed è anche per questo che è stata costruita l’Europa, con una moneta unica. Invece, bisogna ammettere che così non è in questa lunga crisi economica. L’Europa continua a dipendere dall’estero e aspetta che siano le esportazioni verso altri Paesi a tirarla fuori dalla più profonda recessione del dopoguerra, come se fossero ancora 28 piccoli Paesi divisi e isolati. L’Europa è tuttora la somma di nazioni relativamente piccole che lottano per conquistare i mercati esteri, poiché le dimensioni dei loro mercati interni sono tali da non poter garantire una crescita sostenuta.
Perché quest’anomalia? Perché l’Europa continua a cercare fuori di essa la molla per crescere, mentre gli Usa hanno già recuperato i precedenti livelli di attività e hanno ripreso a espandersi, seppure a tassi moderati? Stando così le cose, dobbiamo ammettere che ancora prevalgono i vecchi modelli nazionali e che non c’è ancora un’Europa unita.
Questo modello di crescita trainato dalle esportazioni ha prevalso lungo tutto il periodo della ricostruzione postbellica per l’Europa occidentale e poi si è trasferito all’Europa orientale, una volta caduto il Muro di Berlino. Né allora poteva essere altrimenti, perché ogni singolo Paese europeo era troppo piccolo per avere un mercato interno capace di trainarlo, sicché ogni sforzo nazionale è stato dedicato, per oltre cinquant’anni, a far crescere le esportazioni. Questo modello di crescita è durato a lungo ed è radicato nella memoria, nei comportamenti e nella mentalità europea, al punto che gran parte dell’apparato delle politiche economiche dei Paesi europei si basa ancora su di esso, ossia su misure che favoriscano la competitività e, quindi, le esportazioni.
Quando l’Europa ha varato il progetto del Mercato unico interno e dell’euro, uno degli obiettivi era proprio quello di trasformare un’area economica dove i Paesi fossero trainati dalle esportazioni in un’area con una consistente domanda interna che fosse relativamente indifferente alle variazioni del tasso di cambio della propria moneta. Invece, la logica che ha presieduto alla costruzione dell’Ue è stata la ripetizione su scala continentale dei modelli nazionali export-led.
Le regole di Maastricht per l’ingresso nell’euro, gli obiettivi di Lisbona 2020, i patti di stabilità e il Fiscal compact approvato da (quasi) tutti i Paesi europei, seguono tutti la logica dell’equilibrio nazionale e della ricerca della competitività a livello di singolo Stato, per esportare il massimo e derivare da queste esportazioni la spinta necessaria per crescere. La logica di questa costruzione implica che una somma di nazioni ugualmente competitive (grandi o piccole) dia luogo a un’Unione competitiva. Eppure non è così.
Perseguire una maggiore competitività ed efficienza è senz’altro un obiettivo necessario per una nazione come per un’area vasta come l’Europa, ma non può essere il solo obiettivo di un grande Paese. Come detto, l’Europa è il mercato interno più grande e più articolato del mondo. Può un’Europa di queste dimensioni dipendere, per la sua crescita, dalla domanda asiatica o africana? Può riporre tutta la sua politica nel sostenere le esportazioni verso i Paesi emergenti o verso gli Usa?
Se l’Europa non sa trovare nella sua domanda interna il motore della sua crescita e se deve dipendere dalle altre economie, allora l’Europa è destinata ad avviarsi verso un fallimento certo.
Affinché l’Unione europea possa essere un Paese che ha nella sua domanda interna la fonte della sua crescita, occorre che la politica economica dell’Ue si basi sulla valorizzazione del mercato interno, così come la crescita degli Usa deriva dalle scelte di politica economica che il governo americano fa con riferimento al proprio mercato interno. Il valore esterno dell’euro dovrà essere lasciato alle fluttuazioni del mercato, senza che esso sia determinante per la crescita del Vecchio continente.
Questo implica un progressivo allargamento del bilancio europeo a scapito dei bilanci nazionali: ossia tutto il contrario di quanto i governi europei hanno deciso nell’ultima sessione, dove ci si è vantati di aver limitato le risorse proprie dell’Ue.
L’Unione europea o sarà un grosso mercato interno che trascinerà nella crescita il resto del mondo, o sarà la somma di tanti piccoli Paesi che si faranno una guerra reciproca per mantenere qualche quota di mercato internazionale a scapito dei Paesi emergenti: e questo sarebbe la fine dell’Europa unita.
Obiettivo O la Ue scommette sul proprio boom o sarà la somma di piccoli Paesi rivali: sarebbe la fine