Prima l’oblio, poi la riscoperta Un destino diviso con Monet
Il bel mondo che aveva ritratto disertò la sua retrospettiva
Nel maggio 1931, pochi mesi dopo la morte di Boldini, nella galleria Charpentier (un palazzo in rue Faubourg Saint-Honoré, oggi sede della casa d’aste Sotheby’s) la retrospettiva dedicata al pittore ferrarese che aveva immortalato la mondanità internazionale della Parigi Belle Époque, era praticamente deserta. Assente persino il «tout-Paris» che in altri tempi si era messo in coda per farsi ritrarre dall’italiano dal carattere sgradevole ma dal talento prodigioso. Filippo De Pisis annotò che a quel mesto appuntamento era presente solo un pubblico ormai appartenente al passato «che poteva far pensare ai tiri a quattro e all’eleganza d’avant- guerre […] qualche dama sfiorita, qualche letterato di fama sorpassata: né Paul Morand, né Carco, né Colette, né Bourdé, né Mauriac, e ancor meno Jacob, Cocteau, Crevel, Tzara o Aragon si disturberebbero per Boldini!».
Con la fine della Grande guerra era stato spazzato via anche il vecchio ordine del mondo, ormai oscurato dall’energia iconoclasta delle avanguardie. Lo stesso destino, del resto, toccato alla pittura di Monet. Il decano degli Impressionisti aveva dedicato gli ultimi ventisette anni della sua lunga vita al tema delle Ninfee: circa duecento tele. Ma quando il 2 giugno del 1928, a soli due anni dalla morte del pittore, il primo ministro Clemenceau che aveva fortemente voluto trasformare la grande sala ovale dell’Orangerie in un «tempio» delle Ninfee, andò a visitare il museo, annotò mestamente: «Ieri sono andato all’Orangerie. Non c’era nessun altro».
Eppure non era andata così per tutti. Anche Henri de Toulouse-Lautrec apparteneva a quella stessa società, ma si era dedicato al suo lato più torbido, quello popolato da demi-mondaine, attricette, prostitute, ballerine, come anche Degas.
E in più il conte de Toulouse aveva anche «inventato» un nuovo genere, quello cartellonistico della nascente pubblicità. Come potevano invece sopravvivere le «femmes fleurs» di Boldini accanto alle Demoiselles d’Avignon che Picasso aveva dipinto già dal 1907 o alle donne grasse e volgari di George Grosz? Il mondo era cambiato.
La pittura era cambiata. Nel 1931, alla morte di Boldini, molto dello spirito ribelle delle avanguardie era addirittura già tornato all’ordine, con Picasso in prima fila che contornava le figure con una linea netta per ottenere forme di solida classicità. Persino i nobili e i ricchi borghesi avevano trovato per i loro ritratti un nuovo stile rigido e geometrico, vagamente assonante alle figure picassiane: lo stile di Tamara de Lempicka, l’opposto della pennellata leggera di Boldini. Poco per volta, però, anche la fortuna di Boldini cominciò a riemergere dall’oblio. Paradossalmente proprio grazie all’accostamento con una delle avanguardie più distruttive del mondo borghese e dei valori ottocenteschi esaltati da Boldini: il Futurismo. Fu Carlo Ludovico Ragghianti a proporre l’audace paragone dopo la mostra parigina dedicata a Boldini nel 1963.
Il critico fece di Boldini addirittura il «precursore di Boccioni» per la mobilità convulsa delle tele dell’ultimo periodo. Salvo poi dubitare se Boldini avrebbe mai accettato tale «tessera retrodatata da futurista» così come «non vorrebbe oggi essere considerato un gestuale avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-gestuale».
In effetti l’accostamento è ardito anche perché non ci sono testimonianze di un contatto, pur anche lontano, fra Boldini e Boccioni i quali si ignorano totalmente anche nelle loro corrispondenze. Dunque questo è il caso in cui, come scriveva Oscar Wilde, la critica è più creativa della creazione. La critica più alta — sosteneva — è quella che rivela nell’opera d’arte quanto l’artista non vi aveva messo.
Agli antipodi Nel ‘31, quando morì, le sue muse non reggevano l’impatto con le avanguardie. Ma nel ‘63 il pittore fu definito un precursore del Futurismo