«Prima dell’alba», 20 anni dopo siamo così
D iciamolo, di rado gli sconosciuti in treno sono belli come Ethan Hawke e Julie Delpy. Ma non è per quello che un film come «Prima dell’alba» — cult del cinema indie di cui ricorrono i vent’anni dall’uscita — oggi non si potrebbe fare.
Su un EuroRail, l’americano Jesse incontra Céline. Lui è un tipo easy, un po’ impacciato, lei studia alla Sorbona. La convince a scendere a Vienna, passano la notte a girare la città. E intanto parlano, di tutto. Nina Simone, l’occupazione tedesca di Parigi, il loro posto nel mondo. Ingenuo, stucchevole, sciocchino. E però quell’innocenza è il fascino del film, quel vagabondare — in EuroRail, nelle coscienze, per Vienna — metafora di una generazione. La Polaroid di quando ai giovani era permesso non essere certissimi di nulla. Mentre oggi le esistenze sono iperprogrammate, e un incidente di percorso è un incidente, non opportunità. Oggi, a vent’anni, se diretti a Parigi, non scenderemmo mai a Vienna. Loro visitano i sepolcri senza nome, noi cerchiamo l’immortalità; i nostri pensierini twittati al mondo come capolavori. Soprattutto, quella di Jesse e Céline è l’utopia di connessione senza smartphone.
Nell’era in cui l’amore si consuma tra due emoticon e un selfie, «Prima dell’alba» è la storia di due giovani desiderosi di conoscersi. La scoperta di sé attraverso l’altro — impossibile se quest’ultimo è un post scriptum. Il loro addio è più triste, ha scritto l’Atlantic, perché non ci saranno i social a farli ritrovare; la promessa di rincontrarsi senza scambiarsi i contatti rischiosissima. Oggi, se anche alzassero la testa per parlarsi, Jesse e Céline non avrebbero bisogno di raccontarsi l’uno all’altra, si googlerebbero a vicenda.