LE ARMI SPUNTATE DEI VECCHI STATI
Venti di guerra alle frontiere e nel cuore dell’Europa. Conflitti che oppongono Stati, al Nord; conflitti che nascono dall’assenza o dalla fragilità di Stati, al Sud. Soluzioni che mostrano l’incompletezza della cooperazione europea, da un lato; conflitti ai quali si cerca una soluzione nell’ambito di una cooperazione ancora più ampia, internazionale, dall’altro. Guerre guerreggiate da una parte; attacchi terroristici dall’altra.
Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale, quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata (o di coalizioni di nazioni da una parte e dall’altra). Cambiano le scene dei conflitti, i protagonisti, i metodi e la natura stessa dei conflitti.
La scena, in Libia e nei territori iracheni e siriani occupati dall’Isis, è quella di Stati falliti o fragili, dove si affrontano gruppi non statali, o per la conquista di un territorio, o per attaccare in altri territori.
I protagonisti non sono più solo gli Stati. Entrano in ballo le Nazioni Unite, già impegnate in Africa e nel Medio Oriente in 16 operazioni di mantenimento della pace, con quasi 130 mila persone e un costo di circa 8 miliardi di dollari per anno; l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, già impegnata in molti Paesi dell’Europa centrale con quasi 3 mila persone e un costo di quasi 150 milioni di euro per anno; l’Unione Europea, protagonista debole, perché con poche competenze in campo militare; infine lo «Stato islamico», che è in realtà una forma non statale di potere pubblico, sviluppatosi nel territorio di altri Stati (Siria e Iraq), ma con una proiezione internazionale.
Infine, cambia la natura del conflitto e diventa difficile distinguere tra insorti e nemici e tra operazioni belliche e operazioni di polizia, come ben sanno gli americani fin dal momento in cui il presidente Bush lanciò la war on terror, definita guerra, ma non rivolta ad uno Stato–nazione nemico, bensì ad una organizzazione di natura terroristica con legami globali.
Se in molti casi queste non sono guerre come quelle di una volta, è naturale che le nazioni siano incerte nell’affrontarle e che si rivelino tutte le debolezze di uno spazio che è divenuto globale, senza che vi sia un ordine globale.
Innanzitutto, nei territori non governati, deve essere sempre chiamato l’Onu a ricostituire unità statali stabili ed è accettabile questa forma di nation building dall’alto?
In secondo luogo, fino a quando è possibile che un gigante economico e politico come l’Ue continui ad essere un nano dal punto di vista militare, sotto il peso del lontano fallimento della Comunità europea di difesa (19501954), per cui, quando c’è rumore di armi, come nei giorni scorsi a Minsk, la parola passa agli Stati? In terzo luogo, come si coniuga il ripudio costituzionale della guerra (ricordo che l’art. 11 della Costituzione italiana dispone che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») con la necessità di compiere operazioni belliche a tutela della sicurezza, dove il confine tra polizia e guerra e tra controversia internazionale e conflitto interno è molto incerto?
Infine, come contrastare operazioni terroristiche o belliche compiute a mezzo di organizzazioni di dimensioni globali, quando gli Stati sono ancora prevalentemente ordinati su base nazionale?
La risposta a queste domande è andata maturando, negli ultimi anni, nella comunità internazionale. O l’Onu, o sistemi di alleanze regionali (come da ultimo proposto da Henry Kissinger nel suo libro World Order) dovrebbero essere i garanti supremi delle formazioni statali deboli, controllandole e appoggiandole, in modo che le loro forze interne non deflagrino, portando disordine e terrore in altri territori. È tempo che l’Unione Europea diventi un potere pubblico altrettanto forte in campo militare quanto lo è nel campo economico e politico. Nell’agenda della comunità internazionale dovrebbe essere scritta in permanenza anche la competenza a svolgere azioni di polizia internazionale, una funzione in parte bellica, in parte diretta al mantenimento della sicurezza e dell’ordine. Infine, anche fuori dei confini nazionali c’è bisogno di maggiore unione. Se i problemi sono globali (e tali sono il terrorismo e le controversie sulle zone di influenza), le soluzioni non possono che essere anche esse globali.