«Più diritti agli islamici in carcere per evitare che passino alla jihad»
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha un obiettivo ambizioso: «Far sì che il rispetto dei diritti dei detenuti di religione islamica, oltre che doverosa applicazione dei principi costituzionali, sia anche strumento per prevenire la radicalizzazione e il reclutamento fondamentalista; una via per contrastare il proselitismo di chi ci vede come nemici dell’Islam».
Il dato di partenza è una popolazione carceraria con circa diecimila « ristretti » provenienti da Paesi musulmani, seimila dei quali religiosi praticanti. In settanta penitenziari ci sono già ambienti adibiti a luoghi di culto. «Ma — spiega Orlando —, premesso che stiamo hanno visto nascere o crescere il loro estremismo proprio nelle prigioni, dove si sono probabilmente rafforzati i rapporti con organizzazioni radicali e violente».
Qual è, allora, la risposta giusta?
«Garantire e far rispettare i diritti, la cui negazione è il primo presupposto del reclutamento radicale. Impedire la pratica legittima del culto religioso significa innescare una vera e propria bomba. Allo stesso tempo, però, bisogna evitare che le pratiche di gruppo diventino un mezzo di proselitismo che alimenti il pericolo. La linea di confine è molto sottile, bisogna essere attenti e bravi. Per questo ci stiamo impegnando anche a tessere rapporti con le comunità islamiche e a inserire nel circuito il maggior numero possibile di mediatori culturali».
Per controllare ciò che avviene nelle «moschee» attrezzate all’interno dei penitenziari?
«No, questo è impossibile. Il compito di acquisire informazioni in chiave antiterrorismo spetta ad altri; non a caso abbiamo consentito, con il decreto legge appena approvato, che i servizi segreti, con precisi presupposti, possano accedere negli istituti per colloqui informativi. Per parte nostra dobbiamo creare e far rispettare un clima che favorisca la convivenza e il rispetto di tutti. Tutti gli operatori carcerari devono esserne consapevoli».
Detto nel giorno in cui alcuni agenti della polizia penitenziaria hanno inneggiato al suicidio di un detenuto rumeno, suona un po’ velleitario.
«Si tratta di un episodio intolerabile, per il quale abbiamo già avviato accertamenti, e chiesto alle organizzazioni sindacali di prendere le distanze. Ma mi sento di dire che si tratta di un fatto tanto inaccettabile quanto isolato, che non va enfatizzato: sono certo che i sentimenti degli agenti penitenziari non si confondono con quelle posizioni».
Dalle carceri arrivano segnali di pericolo per la sicurezza?