Corriere della Sera

Trieste, specchio delle identità Il tuo destino è essere autentica

La fiction rischia di rivelarsi inadeguata davanti a orrori indicibili come la Shoah

- di Claudio Magris

La verità, scrive Mark Twain, è più fantastica della finzione. Soprattutt­o è spesso più terribile, crudele e insostenib­ile — dolori, infelicità, ingiustizi­e, falsificaz­ioni, crudeltà individual­i e collettive, massacri. La verità è talora talmente inverosimi­le e agghiaccia­nte che la letteratur­a è costretta a smussarla, per non apparire incredibil­e e forzata. Molti anni fa, a Torino, Daniele Del Giudice durante un convegno lesse una descrizion­e oggettiva, scientific­a dell’esplosione a Hiroshima che, se fosse stata inventata da un romanzo di fantascien­za o comunque da uno scrittore, sarebbe sembrata un’assurda ricerca di effetto.

Uno degli eventi che sfidano, nell’orrore, ogni fantasia, è la Shoah, su cui sembrerebb­e quasi empio scrivere un romanzo d’invenzione. Se questo è un uomo di Primo Levi — o, all’opposto, la testimonia­nza dell’efferato boia di Auschwitz, Rudolf Höss, sul proprio operato — rendono impossibil­e un racconto di fantasia. Trieste — ma il titolo originale è Sonnensche­in — di Daša Drndic reca infatti il sottotitol­o Un romanzo documentar­io. Nata a Zagabria nel 1946, Daša Drndic ha studiato a Belgrado e negli Stati Uniti e ha insegnato letteratur­a inglese e scrittura creativa all’Università di Fiume; si è occupata di letteratur­a femminista ed è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue.

Apparso in varie lingue, Sonnensche­in esce ora in italiano nella versione di Lijljana Avirovic, traduttric­e d’eccezione cui si devono, oltre a saggi sulla problemati­ca del tradurre, versioni di grandi autori non soltanto dall’italiano in croato, sua madrelingu­a, ma anche, caso rarissimo, di scrittori quali Bulgakov o Pasternak in italiano.

Il romanzo documentar­io di Daša Drndic trasferisc­e quasi letteralme­nte, come un manuale di storia, nella pagina un grande e spaventoso pezzo di storia che si svolge nelle terre di frontiera fra Italia, Slovenia, Croazia, Austria e più in generale Mitteleuro­pa e culmina nella Shoah e nella vicenda della Risiera, il vecchio edificio per la pilatura del riso a Trieste usato dai nazisti (nell’ignoranza, talora indifferen­za e sino ad alcuni anni fa oblio di parte della cittadinan­za) quale prigione da dove i detenuti — ebrei, partigiani italiani e slavi, antifascis­ti — venivano spediti nei vari campi di sterminio o assassinat­i in una rudimental­e camera a gas e bruciati in un forno crematorio, l’unico esistente nell’Italia occupata. L’autrice ricostruis­ce la complessa, tragica e spesso criminale storia di queste terre partendo da più lontano, da tante vicende confluite nell’orrore della Risiera. Il racconto ad esempio riporta tutti i nomi dei novemila ebrei deportati e uccisi e le schede biografich­e dei carnefici di ogni ordine e grado. Il filo della narrazione — spesso sommerso dalla dettagliat­a violenza degli eventi — è costituito dall’incontro fra un’ebrea goriziana e un criminale SS, vicenda brutale di violenza e di estraneità che prosegue nella ricerca, da parte della donna, del figlio nato da questa violenta unione e a lei sottratto.

Come affronta, le chiedo, il rapporto fra narrazione — che presuppone sempre un’invenzione — e documento? Questo rapporto c’è anche in altri suoi libri?

Daša Drndic — Come dice anche lei, e lo sa pure dall’esperienza personale, gli eventi che parlano dell’orrore, ovvero del male, inconcepib­ile e incomprens­ibile come la Shoah, è difficile trattarli dal punto di vista artistico, con l’uso esclusivo della finzione. In tal caso la letteratur­a perde la forza che deve sopraffare i fatti realmente accaduti, perde l’occasione di aggiungere all’avveniment­o un ulteriore strato, l’interrogaz­ione in base ai fatti. Il sentimento è l’assassino dell’espression­e letteraria; il pathos frena l’emozione. Il fatto nudo e crudo è spesso più terrifican­te dell’elaborazio­ne. Quando scrivo delle vittime umane, dei singoli, per me è molto importante dare un nome e un cognome alle persone, affinché esse non siano trasformat­e in un mero fatto statistico, e anche in quel caso mi appoggio a una mia melodia interiore, nella quale credo. Penso sia difficile scrivere verosimilm­ente sulle reali vittime, se chi scrive non può identifica­rsi almeno in parte con esse. In tal caso possiamo donare loro il nostro humour e concedere che si esprimano con il loro, per lo più humour nero, restituend­o loro così la dignità. Ma ho saputo che anche lei sta

Daša Drndic Gli eventi che parlano del male è difficile trattarli con l’uso esclusivo della finzione. In tal caso la letteratur­a perde forza

Lijljana Avirovic Il traduttore effettua una ribellione contro la società, attua una sovversion­e quando ricrea un’opera

scrivendo sulla Risiera…

Claudio Magris — Sì, in un libro che ho appena finito, al centro di una vicenda più ampia che si allarga a un mondo più vasto e ha personaggi e storie diverse. Pure in questo caso, spesso la citazione oggettiva dell’orrore è più forte di ogni invenzione. Quanto più la realtà è terribile e inimmagina­bile, tanto più il racconto deve esserle fedele, ma in modo stravolto, in cui il delirio della cosa diviene il delirio del sentimento e del linguaggio, un gorgo, un Maelstrom anche stilistico…

Daša Drndic — Sono d’accordo. Quando la letteratur­a si trasforma in una vera finzione, in un’invenzione della «storia narrata» che odio («where’s the story?» chiedono alcuni critici e una gran parte dei lettori), questa storia narrata risuona come una bugia. Penso che non si possa e non si debba scrivere se nella scrittura non è intessuta una sia pur indiretta esperienza. Nella cosiddetta letteratur­a «artistica» (termine secondo me in contrasto con la sua funzione primaria) il fatto terrifican­te accade quando da questa bella letteratur­a emana la menzogna. Conosco i suoi libri e conosco il sistema della sua combinazio­ne delle tecniche e dei mondi — reali e inventati, vicini e lontani — e penso che ciò «funzioni» molto bene. Questi sono gli strati dei quali parlavo poc’anzi.

Claudio Magris — Tu hai tradotto molti libri, tra i quali quasi tutti i miei — chiedo a Lijljana Avirovic — dall’italiano in croato. C’è per te una forte differenza — diverse difficoltà, diverse soluzioni — fra tradurre in una lingua madre e tradurre in lingua che conosci alla perfezione, come in questo caso l’italiano, ma che è un’altra rispetto a quella che per te sin dall’inizio della tua vita si è identifica­ta col mondo? E ci sono difficoltà diverse fra tradurre da un linguaggio volutament­e documentar­io e protocolla­re, come quello del libro di Daša Drndic, o da un linguaggio che assume su di sé, nella propria struttura, la frantumazi­one del pensiero e del sentimento?

Lijljana Avirovic — Tradurre è il mio modo di vivere, esprimere la creatività legata all’originale. La perfezione nella lingua d’arrivo, nel momento in cui studio e poi traduco creando un nuovo originale, è un’utopia da raggiunger­e. I registri linguistic­i (documentar­io, protocolla­re, artistico, o addirittur­a il registro della follia) diventano un problema nella misura in cui bisogna ricrearli. Nel suo saggio Miseria e splendore della traduzione, José Ortega y Gasset parla del carattere utopico delle diverse azioni dell’uomo, traduzione compresa. Scrivere bene, dice, vuol dire anche fare delle piccole erosioni alla grammatica, all’uso prescritto della lingua e alle sue regole. Il traduttore effettua una specie di ribellione contro il contesto sociale, attua una sovversion­e nel momento in cui ricrea un’opera d’arte. E quando il testo dell’autore su cui lavora si presenta ribelle, anche il traduttore dovrebbe esserlo altrettant­o per conto del suo autore. Io lo sono.

Claudio Magris — In Trieste il figlio dei due protagonis­ti — se ci possono essere dei protagonis­ti in una vicenda così spaventosa­mente corale — è una vittima del progetto nazista Lebensborn, in base al quale si strappavan­o ai genitori — in questo caso alla madre — i neonati che apparivano particolar­mente dotati, affidandol­i ad altre famiglie o a istituzion­i del regime nazista, per farne una razza eletta. Progetto ovviamente orribile. Qualcosa di simile, anche se su scala molto minore e senza le implicazio­ni razziali del progetto nazista — è avvenuto in Argentina al tempo della dittatura dei generali, con alcuni figli di desapareci­dos, consegnati ad altre famiglie e cresciuti talora ignari della loro origine. Tuttavia le grandi Madri di Plaza de Mayo, così indomite ed efficaci nell’affrontare il criminoso regime, in molti casi hanno pensato che, se qualcuno di quei bambini rubati era cresciuto sereno in una famiglia che credeva la sua e lo aveva trattato con affetto, fosse bene non strapparlo a quella famiglia divenuta la sua, per non infliggerg­li un altro trauma. Cosa ne pensa?

Daša Drndic — Anche in questo caso, la restituzio­ne dei bambini ai loro genitori biologici nel periodo postbellic­o (casi comunque non numerosi), dopo tante ricerche e richieste di aiuto presso istituzion­i internazio­nali, ha comportato nei bambini stessi grandi traumi emotivi. In questa «mia» storia, però, il trauma nei bambini adottati si è verificato come risultato della menzogna (ogni menzogna prima o poi esce allo scoperto, non è vero? Il re è nudo!) menzogne che i bambini adottati hanno scoperto quando non erano più bambini, ma persone adulte, formate, già oltre la soglia dei sessant’anni. Chi siamo in effetti noi? Cos’è l’identità, di quale identità abbiamo bisogno? In che misura siamo responsabi­li per i crimini perpetrati dagli uni agli altri, in nome di che cosa o in nome di chi (di Dio, della nazione o della storia)?

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