Trieste, specchio delle identità Il tuo destino è essere autentica
La fiction rischia di rivelarsi inadeguata davanti a orrori indicibili come la Shoah
La verità, scrive Mark Twain, è più fantastica della finzione. Soprattutto è spesso più terribile, crudele e insostenibile — dolori, infelicità, ingiustizie, falsificazioni, crudeltà individuali e collettive, massacri. La verità è talora talmente inverosimile e agghiacciante che la letteratura è costretta a smussarla, per non apparire incredibile e forzata. Molti anni fa, a Torino, Daniele Del Giudice durante un convegno lesse una descrizione oggettiva, scientifica dell’esplosione a Hiroshima che, se fosse stata inventata da un romanzo di fantascienza o comunque da uno scrittore, sarebbe sembrata un’assurda ricerca di effetto.
Uno degli eventi che sfidano, nell’orrore, ogni fantasia, è la Shoah, su cui sembrerebbe quasi empio scrivere un romanzo d’invenzione. Se questo è un uomo di Primo Levi — o, all’opposto, la testimonianza dell’efferato boia di Auschwitz, Rudolf Höss, sul proprio operato — rendono impossibile un racconto di fantasia. Trieste — ma il titolo originale è Sonnenschein — di Daša Drndic reca infatti il sottotitolo Un romanzo documentario. Nata a Zagabria nel 1946, Daša Drndic ha studiato a Belgrado e negli Stati Uniti e ha insegnato letteratura inglese e scrittura creativa all’Università di Fiume; si è occupata di letteratura femminista ed è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue.
Apparso in varie lingue, Sonnenschein esce ora in italiano nella versione di Lijljana Avirovic, traduttrice d’eccezione cui si devono, oltre a saggi sulla problematica del tradurre, versioni di grandi autori non soltanto dall’italiano in croato, sua madrelingua, ma anche, caso rarissimo, di scrittori quali Bulgakov o Pasternak in italiano.
Il romanzo documentario di Daša Drndic trasferisce quasi letteralmente, come un manuale di storia, nella pagina un grande e spaventoso pezzo di storia che si svolge nelle terre di frontiera fra Italia, Slovenia, Croazia, Austria e più in generale Mitteleuropa e culmina nella Shoah e nella vicenda della Risiera, il vecchio edificio per la pilatura del riso a Trieste usato dai nazisti (nell’ignoranza, talora indifferenza e sino ad alcuni anni fa oblio di parte della cittadinanza) quale prigione da dove i detenuti — ebrei, partigiani italiani e slavi, antifascisti — venivano spediti nei vari campi di sterminio o assassinati in una rudimentale camera a gas e bruciati in un forno crematorio, l’unico esistente nell’Italia occupata. L’autrice ricostruisce la complessa, tragica e spesso criminale storia di queste terre partendo da più lontano, da tante vicende confluite nell’orrore della Risiera. Il racconto ad esempio riporta tutti i nomi dei novemila ebrei deportati e uccisi e le schede biografiche dei carnefici di ogni ordine e grado. Il filo della narrazione — spesso sommerso dalla dettagliata violenza degli eventi — è costituito dall’incontro fra un’ebrea goriziana e un criminale SS, vicenda brutale di violenza e di estraneità che prosegue nella ricerca, da parte della donna, del figlio nato da questa violenta unione e a lei sottratto.
Come affronta, le chiedo, il rapporto fra narrazione — che presuppone sempre un’invenzione — e documento? Questo rapporto c’è anche in altri suoi libri?
Daša Drndic — Come dice anche lei, e lo sa pure dall’esperienza personale, gli eventi che parlano dell’orrore, ovvero del male, inconcepibile e incomprensibile come la Shoah, è difficile trattarli dal punto di vista artistico, con l’uso esclusivo della finzione. In tal caso la letteratura perde la forza che deve sopraffare i fatti realmente accaduti, perde l’occasione di aggiungere all’avvenimento un ulteriore strato, l’interrogazione in base ai fatti. Il sentimento è l’assassino dell’espressione letteraria; il pathos frena l’emozione. Il fatto nudo e crudo è spesso più terrificante dell’elaborazione. Quando scrivo delle vittime umane, dei singoli, per me è molto importante dare un nome e un cognome alle persone, affinché esse non siano trasformate in un mero fatto statistico, e anche in quel caso mi appoggio a una mia melodia interiore, nella quale credo. Penso sia difficile scrivere verosimilmente sulle reali vittime, se chi scrive non può identificarsi almeno in parte con esse. In tal caso possiamo donare loro il nostro humour e concedere che si esprimano con il loro, per lo più humour nero, restituendo loro così la dignità. Ma ho saputo che anche lei sta
Daša Drndic Gli eventi che parlano del male è difficile trattarli con l’uso esclusivo della finzione. In tal caso la letteratura perde forza
Lijljana Avirovic Il traduttore effettua una ribellione contro la società, attua una sovversione quando ricrea un’opera
scrivendo sulla Risiera…
Claudio Magris — Sì, in un libro che ho appena finito, al centro di una vicenda più ampia che si allarga a un mondo più vasto e ha personaggi e storie diverse. Pure in questo caso, spesso la citazione oggettiva dell’orrore è più forte di ogni invenzione. Quanto più la realtà è terribile e inimmaginabile, tanto più il racconto deve esserle fedele, ma in modo stravolto, in cui il delirio della cosa diviene il delirio del sentimento e del linguaggio, un gorgo, un Maelstrom anche stilistico…
Daša Drndic — Sono d’accordo. Quando la letteratura si trasforma in una vera finzione, in un’invenzione della «storia narrata» che odio («where’s the story?» chiedono alcuni critici e una gran parte dei lettori), questa storia narrata risuona come una bugia. Penso che non si possa e non si debba scrivere se nella scrittura non è intessuta una sia pur indiretta esperienza. Nella cosiddetta letteratura «artistica» (termine secondo me in contrasto con la sua funzione primaria) il fatto terrificante accade quando da questa bella letteratura emana la menzogna. Conosco i suoi libri e conosco il sistema della sua combinazione delle tecniche e dei mondi — reali e inventati, vicini e lontani — e penso che ciò «funzioni» molto bene. Questi sono gli strati dei quali parlavo poc’anzi.
Claudio Magris — Tu hai tradotto molti libri, tra i quali quasi tutti i miei — chiedo a Lijljana Avirovic — dall’italiano in croato. C’è per te una forte differenza — diverse difficoltà, diverse soluzioni — fra tradurre in una lingua madre e tradurre in lingua che conosci alla perfezione, come in questo caso l’italiano, ma che è un’altra rispetto a quella che per te sin dall’inizio della tua vita si è identificata col mondo? E ci sono difficoltà diverse fra tradurre da un linguaggio volutamente documentario e protocollare, come quello del libro di Daša Drndic, o da un linguaggio che assume su di sé, nella propria struttura, la frantumazione del pensiero e del sentimento?
Lijljana Avirovic — Tradurre è il mio modo di vivere, esprimere la creatività legata all’originale. La perfezione nella lingua d’arrivo, nel momento in cui studio e poi traduco creando un nuovo originale, è un’utopia da raggiungere. I registri linguistici (documentario, protocollare, artistico, o addirittura il registro della follia) diventano un problema nella misura in cui bisogna ricrearli. Nel suo saggio Miseria e splendore della traduzione, José Ortega y Gasset parla del carattere utopico delle diverse azioni dell’uomo, traduzione compresa. Scrivere bene, dice, vuol dire anche fare delle piccole erosioni alla grammatica, all’uso prescritto della lingua e alle sue regole. Il traduttore effettua una specie di ribellione contro il contesto sociale, attua una sovversione nel momento in cui ricrea un’opera d’arte. E quando il testo dell’autore su cui lavora si presenta ribelle, anche il traduttore dovrebbe esserlo altrettanto per conto del suo autore. Io lo sono.
Claudio Magris — In Trieste il figlio dei due protagonisti — se ci possono essere dei protagonisti in una vicenda così spaventosamente corale — è una vittima del progetto nazista Lebensborn, in base al quale si strappavano ai genitori — in questo caso alla madre — i neonati che apparivano particolarmente dotati, affidandoli ad altre famiglie o a istituzioni del regime nazista, per farne una razza eletta. Progetto ovviamente orribile. Qualcosa di simile, anche se su scala molto minore e senza le implicazioni razziali del progetto nazista — è avvenuto in Argentina al tempo della dittatura dei generali, con alcuni figli di desaparecidos, consegnati ad altre famiglie e cresciuti talora ignari della loro origine. Tuttavia le grandi Madri di Plaza de Mayo, così indomite ed efficaci nell’affrontare il criminoso regime, in molti casi hanno pensato che, se qualcuno di quei bambini rubati era cresciuto sereno in una famiglia che credeva la sua e lo aveva trattato con affetto, fosse bene non strapparlo a quella famiglia divenuta la sua, per non infliggergli un altro trauma. Cosa ne pensa?
Daša Drndic — Anche in questo caso, la restituzione dei bambini ai loro genitori biologici nel periodo postbellico (casi comunque non numerosi), dopo tante ricerche e richieste di aiuto presso istituzioni internazionali, ha comportato nei bambini stessi grandi traumi emotivi. In questa «mia» storia, però, il trauma nei bambini adottati si è verificato come risultato della menzogna (ogni menzogna prima o poi esce allo scoperto, non è vero? Il re è nudo!) menzogne che i bambini adottati hanno scoperto quando non erano più bambini, ma persone adulte, formate, già oltre la soglia dei sessant’anni. Chi siamo in effetti noi? Cos’è l’identità, di quale identità abbiamo bisogno? In che misura siamo responsabili per i crimini perpetrati dagli uni agli altri, in nome di che cosa o in nome di chi (di Dio, della nazione o della storia)?