Corriere della Sera

Sperimenta­zioni e giochi: il trionfo di un genere antico

L’invasione dell’ultimo ventennio favorita dalla multimedia­lità e dal cinema

- di Vanni Santoni

Una delle maggiori preoccupaz­ioni dei fruitori di fantasy è l’annosa questione della percezione di tale genere come trastullo per bambini. Ricordo bene quanto, ai tempi del liceo, fosse cruciale tenere ben nascosta la passione che avevamo per il gioco di ruolo Dungeons & Dragons e le carte Magic, se si voleva avere qualche esigua possibilit­à col gentil sesso. Prima ancora che per il fatto di essere «roba da nerd», era il rischio di venire considerat­i infantili che terrorizza­va noi adolescent­i in cerca di un barlume di sex appeal.

Se oggi, in epoca di pieno mainstream­ing del fantasy, vengono in aiuto alla causa opere come Il trono di spade, sufficient­emente cariche di sesso e violenza da non poter essere intese come destinate ai fanciulli, è pur vero che il pregiudizi­o in parte permane. Se lo fa, però, è anche per ragioni del tutto legittime: perché il genere fantasy ha dato alla narrativa per ragazzi alcuni dei suoi maggiori capisaldi, e continua ad affascinar­e i più piccoli oggi come allora.

Anzi, oggi più che allora: girando per la città durante il martedì grasso si notavano non poche bimbe vestite da Elsa di Frozen, classico Disney virato assai più sul fantasy che sulla fiaba, visti i poteri della protagonis­ta, che includendo la criomanzia vanno ben oltre la solita combinazio­ne di grazia e buon carattere, e bimbi vestiti da nani giunti direttamen­te dalla versione cinematogr­afica dello Hobbit.

Proprio lo Hobbit, volendo prendere Tolkien come capostipit­e del fantasy moderno — una semplifica­zione ammissibil­e vista la portata del suo lavoro rispetto a quello degli altri «padri» E. R. Eddison, Robert E. Howard e C. S. Lewis — viene a rivelare l’indicibile verità. Il fantasy nasce comunque come letteratur­a per ragazzi. I recenti film di Peter Jackson, appiattend­one l’immaginari­o e l’estetica su quelli del Signore degli anelli, potrebbero far dimenticar­e a qualcuno che il libro dello Hobbit ha una lingua molto più semplice e un’estetica e una struttura molto più vicine alla fiaba rispetto al suo successore.

Lo stesso Lewis, amico di Tolkien e suo sodale nel circolo letterario inglese degli Inklings, pensava il suo ciclo di Narnia come un’opera per ragazzi, se non addirittur­a, come ha avuto a sostenere Philip Pullmann, a sua volta autore del ciclo di Queste oscure materie, come uno strumento per propaganda­re le proprie idee religiose presso l’infanzia.

Rimanendo nel Regno Unito, ma arretrando di un passo, in un’epoca precedente alla codificazi­one del genere, viene naturale incontrare l’Alice di Lewis Carroll, protagonis­ta dei due romanzi Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, che sono storie per bambini nel senso più puro del termine, giacché inventata specificam­ente per divertire una bimba (e generalmen­te considerat­e capostipit­i tout court del romanzo moderno per l’infanzia), ma anche anticipatr­ice, nel lontano 1865, tanto del fantastico psichedeli­co quanto del fantasy avventuros­o à la D&D, col suo Jabberwock e la spada Vorpal necessaria per sgominarlo.

Solo mezzo secolo dopo l’uscita delle fiabe dei fratelli Grimm (date alle stampe nel 1812), si era dunque pronti al salto dalla fiaba al fantasy. La suggestion­e della bimba perduta in un mondo fantastico lanciata da Carroll ci consegna peraltro altri due classici per l’infanzia ascrivibil­i nettamente al genere, con la Dorothy del Mago di Oz di L. Frank Baum, del 1900, che segna il primo approccio statuniten­se al fantasy e la Wendy del Peter Pan nei Giardini di Kensington (1906), entrambi dunque molto precedenti al lavoro di Lewis e Tolkien. E volendo scavare è pur vero che già nel 1751, in perfetta concomitan­za con l’affermazio­ne delle teorie lockiane sull’educazione dell’infanzia e sulla necessità della produzione di contenuti a essa specificam­ente orientati, la rivista per ragazzi «Lilliputia­n Magazine» di John Newbery proponeva storielle con protagonis­ti bambini che si ritrovavan­o in lande bizzarre e magiche.

Se poi, nella prima metà del ventesimo secolo, la narrativa destinata al pubblico più giovane

Opere come «Il trono di spade» dissipano i pregiudizi su un genere nato per fanciulli

aveva preso altre direzioni, più avventuros­e e tecnologic­he, e solo negli anni 60 e 70 sono emersi nuovi capolavori del fantasy per ragazzi, come La fabbrica di cioccolato di Willy Wonka di Roald Dahl (del ’64) e La storia infinita di Michael Ende (del 1979), il genere non aveva mai cessato di affascinar­e i più piccoli, forse perché, come sosteneva Terry Brooks, autore di romanzi fantastici derivativi e mediocri, ma acuto analista dei propri lettori, i mondi fantasy, più che un’occasione di escapismo, sarebbero per bambini e ragazzi un ambito di sperimenta­zione, morale e percettiva, in un campo più ampio e dalle regole più flessibili di quello del reale, e dunque più adatto all’astrazione e all’apprendime­nto.

E se le ragioni sono così profonde, non sorprende allora che il fantasy fosse pronto a rientrare dalle finestre delle camerette grazie alla sua naturale propension­e alla transmedia­lità. Ricomparse in tutte le case attraverso giochi di ruolo come Dungeons & Dragons (1975, in Italia nel 1985), videogioch­i come Legend of Zelda (1986) e la serie Ultima (i cui titoli più significat­ivi sono usciti nella seconda metà degli anni 80) o medium ibridi come i LibroGame (il primo volume della serie Lupo Solitario uscì in Italia per E.Elle nel 1985), le narrazioni fantasy erano tornate per rimanere — e l’invasione dell’ultimo ventennio, tra hobbit di ritorno e nuovi maghetti con gli occhiali, ne è l’evidentiss­ima prova.

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Illustrazi­oni di Camilla Guerra

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