Sarcasmo e futili ricordi nel monologo di Esdra
Penseremmo, seguendo uno schema tradizionale, che l’interprete di un monologo o di un quasi monologo di centottanta minuti alla fine della sua performance sia estenuato, stremato. Così non è per Micaela Esdra, protagonista di Alla meta di Thomas Bernhard in scena al Franco Parenti di Milano. Accompagnata dai quasi silenziosi compagni di ventura, Rita Abela e Diego Florio, quando esce agli applausi Micaela Esdra è felice, leggera, sorridente: non già nell’ovvio modo in cui lo sono tutti gli attori in quel momento, quando la loro fatica è finita e ricompensata dal pubblico, lei la si direbbe, più che sollevata da un peso, da quello stesso peso innalzata — come di chi abbia appunto conseguito la sua meta, con una consapevolezza in più: che il suo cammino si ripeterà, che quella meta la conquisterà di nuovo.
È probabilmente l’esito intrinseco a ogni testo dello scrittore austriaco, ove sempre ci si imbatte in una identificazione paradossale dell’attore con il suo personaggio. Non a caso di Alla meta ricordiamo le attrici, non i registi. Diciamo: Alla meta di Valeria Moriconi, o di Franca Nuti, o di Micaela Esdra. Non diciamo: di Piero Maccarinelli, di Cesare Lievi, di Walter Pagliaro. Qual è l’apporto dei registi per questa suprema prova d’attrice? Presumiamo sia un apporto di ordine, di compostezza, di ritmo. Difficile vi siano elementi interpretativi particolari. Tutt’al più ci chiediamo: perché ricorrono (ricordo Valeria Moriconi nell’89) capigliature così abbondanti, fluenti, sempre biondo-cenere, o bianche e bionde sulla testa della protagonista? Sì, è una madre piena di futili ricordi, in là con gli anni, ma non tanto in là; ha una figlia poco eloquente e piuttosto giovane; ed è ancora attratta dagli uomini, in specie gli uomini di teatro, i drammaturghi, anche l’uomo di cui è vedova era un drammaturgo.
Li meritano davvero tutti quei capelli, disordinati, sciatti, imbiancati? I nostri registi non sono un po’ condizionati, affrontando questo Bernhard, dal suo illustre predecessore in nichilismo Samuel Beckett? A differenza di Beckett, Bernhard è furente, non perde l’occasione di mostrare il suo sarcasmo.
Madre e figlia partono per le vacanze, vanno al mare. Dopo due ore di spettacolo sono raggiunte da un giovanotto che si propone di replicare il successo di quel marito troppo presto scomparso: l’uomo che, come ripete la vedova, era solito dire «tutto è bene quel che finisce bene». Ma la madre è fin troppo lucida sulla natura degli uomini e delle loro ambizioni e al giovane drammaturgo rivela: «Lo ammetta, lei è contento / Anche se dice / che gli applausi le hanno distrutto tutto / questo non lo può dire / Io sento il mare e sono i battimani / Il mormorio del mare sono gli applausi per il suo lavoro / Lei è arrivato alla sua meta caro signore». Questa vedova è insomma sarcastica almeno quanto l’autore della commedia. Agli applausi però non lo è più la sua interprete: anche lei è arrivata alla (stessa) meta cui ogni drammaturgo dopo tutto (o prima di tutto) ambisce.
È come se sotto il «mormorio del mare» Micaela Esdra sentisse correre l’onda di una strana felicità.