TROPPI GIRI DI VALZER SULLA LIBIA
Nel nome della Libia si chiude una settimana piena di errori. Le manovre private in diplomazia esistono da sempre, ma non devono provocare danni pubblici, come purtroppo è stato
Si chiude oggi, nel nome della Libia com’era iniziata, una settimana che la politica estera italiana farà bene a dimenticare in fretta. Siamo tornati perfettamente in linea con i nostri alleati occidentali, siamo per la nascita in Libia di un governo di unità nazionale che l’Onu provvederà poi a tutelare, siamo contenti che il Consiglio di sicurezza abbia lasciato cadere ieri le più bellicose proposte dell’Egitto. L’Italia è tornata ad essere se stessa. Ma come dimenticare che appena cinque o sei giorni fa il ministro degli Esteri e quello della Difesa disegnavano invece un Paese che non conoscevamo, una Italia muscolare «pronta a combattere» e che addirittura aveva già fatto il conto delle forze militari disponibili per tornare in quello che Salvemini definì «lo scatolone di sabbia»?
Gentiloni e Pinotti sono persone serie, e questo moltiplica gli interrogativi sulle loro fughe in avanti. Sembrò all’improvviso, nei giorni scorsi, che per fermare l’avanzata dell’Isis una risoluzione dell’Onu che autorizzava l’uso della forza fosse necessaria ma anche scontata, il che non era. Si disse che noi italiani volevamo guidare le missione. Sembrò che gli armigeri del Palazzo di Vetro (non meno di cinquantamila uomini, con mezzi pesanti) fossero destinati a verificare in loco se dovevano monitorare un accordo di pace ( peace keeping) oppure fare la guerra per imporlo ( peace enforcing). Non c’erano piani credibili per andare, e soprattutto non c’erano piani credibili per venire via.
L’assalto degli hooligan del Feyenoord in piazza di Spagna a Roma prima della partita di Europa League
Q uando il mondo intero cominciò a chiedersi cosa mai stesse accadendo nella pacifica Italia, l’arbitro Renzi fischiò la fine della partita. E tutti tornarono ad essere per il dialogo, per il negoziato, come sono oggi.
È stato un modo per imporre all’attenzione altrui l’emergenza Libia che per noi è una priorità, si è sentito dire. Ma c’è dell’altro, in aggiunta al continuo aggravamento della situazione in Libia. L’antica rivalità mediatica tra la Farnesina e il ministero della Difesa, per esempio. L’eccessiva disponibilità alle interviste che «fanno notizia». Il provvisorio silenzio di Renzi. E poi il sospetto che esistesse una intesa tra Egitto e Francia, dopo quella sulla vendita di 24 Rafale all’aviazione del Cairo, per promuovere e guidare una operazione Libia che il presidente Al Sisi reclamava da tempo (e aveva reclamato anche nell’intervista del 23 novembre scorso al Corriere). Il fischio di Renzi, guarda caso, arrivò soltanto dopo aver accertato che il patto non c’era, o non c’era più anche a causa del «parere» americano. Le manovre private in diplomazia esistono da sempre. Ma non devono provocare danni pubblici o visibili giri di valzer, come purtroppo è stato.
Ora Matteo Renzi andrà a Mosca per incoraggiare la disponibilità anti Isis di Putin (ma qualche parola meno lieta dovrà dirla anche sull’Ucraina). E Federica Mogherini ci dice che è questione di giorni, non di settimane. Che i due governi e i due Parlamenti libici hanno poco tempo per accogliere le esortazioni diplomatiche dell’inviato dell’Onu Bernardino León se non vogliono una catastrofe