Diari e memorie di giovani arruolati nell’esercito italiano e in quello austroungarico «Qualcuno in paese parla di me?» Lettere dei soldati dai due fronti
Sono resoconti che tolgono il respiro, che cancellano qualsiasi illusione, se ancora se ne avevamo, che aprono visioni terribili su cosa l’uomo può fare all’uomo, che inducono a rinnegare qualsiasi conflitto, di tutti i tempi. Li ha raccolti e commentati in un libro, Storia intima della Grande Guerra (Donzelli editore, pp. 311, 32, con allegato in Dvd il film di Enrico Verra Scemi di guerra), Quinto Antonelli, responsabile dell’Archivio di scrittura popolare presso il Museo Storico del Trentino, e sono diari, lettere, memorie di soldati, in parte arruolati nell’esercito italiano, in parte — i trentini, i friulani, i giuliani — in quello austroungarico. E si può dire che è una perversa gara tra chi ha vissuto le esperienze più spaventose, vinta forse — per un pelo — dai combattenti sul fronte russo, dove furono inviate le leve austriache di lingua italiana.
Sono voci di soldati semplici soprattutto, contadini, operai, artigiani provenienti da diverse regioni, che nei diari e nelle lettere alla famiglia, in modo spesso sgrammaticato e segnato dal dialetto, raccontano l’indicibile, la spaventosa macelleria della guerra, combattuta quasi sempre dalle trincee dove il fango (oppure, d’inverno, la neve) si mescola al sangue e ai corpi dei caduti che non si fa in tempo a seppellire, sui quali si è costretti a strisciare, a camminare.
Si tratta, nella maggioranza dei casi, di cronisti poco scolarizzati, eppure essi scrivono e scrivono, disperatamente cercando di spiegare quel che a casa non si può immaginare: e ci riescono, con grande, terribile efficacia, pur nel loro linguaggio spesso ingenuo, spesso primitivo. Scrive, per esempio, un soldato che ha osservato come i caduti vengano seppelliti in fosse comuni: «I cadaveri erano allineati fitti, come sardine in una scatola…», e un secolo dopo la rappresentazione di quei poveri corpi ci arriva potente e precisa. E scrive un altro che la guerra è simile a un gigantesco frantoio in cui vengono gettati gli uomini, dai quali si spreme — letteralmente — il sangue.
Raccontano, gli scritti, la paura, sempre, giorno e notte, di essere colpiti, di morire, raccontano la rabbia per l’insensatezza del conflitto e per i frequenti maltrattamenti da parte dei superiori, raccontano le speranze che «tra qualche mese finirà», quando sappiamo che, rispetto alla data delle lettere, il massacro sarebbe proseguito per due o tre anni ancora. E poi raccontano la fame, la sete, l’abbrutimento fisico e spirituale, l’assuefazione alla più estrema violenza e crudeltà.
A volte, sia pur raramente, narrano anche di eroismi, di episodi di abnegazione, del riscontro del comune sentire con il nemico: «Poveri italiani, poveri austriaci», ha la lucidità di scrivere un contadino friulano da poco arruolato. E un altro riflette sulla cosiddetta «modernità» della guerra, barbarie pura, annota, sopravvissuta immutata dalla notte dei tempi.
Si rivolgono, i soldati, alle madri, alle mogli, ai padri, ai fratelli, agli zii, raccomandano di salutare i parenti, «tutti quelli che chiedono di me». Hanno quasi sempre venti, ventidue, venticinque anni, spesso già con figli; vogliono sapere della vita di casa, di come Quinto Antonelli, responsabile dell’Archivio di scrittura popolare presso il Museo Storico del Trentino. Il 28 luglio del 1914 l’Austria entrava in guerra con la Serbia: iniziava così la Prima guerra mondiale. Si gioca a calcio sul fronte orientale (Archivio Corsera) continua senza di loro, vogliono sapere del lavoro, degli amici, sono avidi di notizie del loro mondo di prima, del mondo normale, per consolarsi un poco dell’inferno nel quale si trovano, ed è per questo probabilmente che la posta da casa è una delle poche consolazioni che toccano a quegli infelici, forse la sola, in verità.
Non c’è patriottismo che tenga e nemmeno fede religiosa: la famiglia è l’unico riferimento rimasto, il centro dei pensieri, della nostalgia, delle aspirazioni; senza, è immaginabile che di reduci ce ne sarebbero stati ancora meno. È un miraggio, la famiglia, un luogo protetto, sicuro, cui tutti disperatamene anelano, luogo dell’umanità, del calore, dell’affetto per quanti sono costretti al fronte nella disumanità, nel freddo gelido e nella negazione dei sentimenti.
E chissà, viene da chiedersi leggendo quelle missive antiche di cento anni, se scrivono e a chi scrivono i soldati che oggi fanno la guerra in giro per il mondo, ora che la famiglia si dice non esista più.