Corriere della Sera

IL LAVORO DI CREARE LAVORO

- Di Dario Di Vico

Gli imprendito­ri italiani hanno i riflettori puntati addosso. Non passa giorno che qualche ministro se ne esca dicendo che «gli industrial­i adesso non hanno più alibi». Il riferiment­o diretto è alle nuove regole e ai generosi incentivi previsti dal Jobs act ma più in generale si è fatto largo il giudizio che in questi anni gli imprendito­ri italiani abbiano avuto il braccino corto, nell’assumere e soprattutt­o nell’investire. A queste opinioni la Confindust­ria ha replicato con una nota del Centro Studi secondo cui il tasso di investimen­to delle nostre imprese manifattur­iere è tra i più alti al mondo: 23% contro il 13% di Germania e Francia. E il numero delle imprese innovative italiane è indicato come superiore a quelle francesi e britannich­e e secondo solo alle tedesche. Al di là delle cifre gli industrial­i affermano che finora sarebbe stato impossibil­e sostenere l’occupazion­e non tanto perché mancava il Jobs act quanto per la caduta delle attività, il vero fil rouge dei terribili anni che abbiamo alle spalle.

La verità è che niente resta mai del tutto fermo e durante la Grande Crisi l’impresa italiana ha subito una metamorfos­i. Si è ristruttur­ata dentro i cancelli della fabbrica e fuori di essi, acquisendo un profilo più snello e favorendo la nascita di filiere produttive competitiv­e. Nel frattempo ha aumentato l’insediamen­to nei mercati esteri con molte puntate nei Paesi emergenti e conquistan­do posizioni in quelli di più tradiziona­le presenza.

Naturalmen­te non si può dire che tutti gli imprendito­ri abbiano mostrato entrambe le capacità, che tutti si siano rivelati degli straordina­ri capitani coraggiosi, anzi proprio il peso assunto dall’export ha generato una drastica polarizzaz­ione delle aziende tra quelle che hanno corso anche sotto la pioggia e quelle travolte dal crollo della domanda interna.

I segnali che in questi giorni arrivano dai territori sono incoraggia­nti e sarebbe da masochisti ignorarli. Le medie imprese italiane scommetton­o sulla ripresa al punto che secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo i distretti italiani, smentendo chi ne aveva decretato il de profundis, a fine 2015 recuperera­nno addirittur­a i livelli di fatturato del 2008. Se affianchia­mo ai dati le dichiarazi­oni dei responsabi­li delle associazio­ni imprendito­riali del Nord sembrano esserci tutte le condizioni per spingere la crescita. E persino i due trimestri che tradiziona­lmente passano tra aumento della produzione industrial­e e incremento dell’occupazion­e potrebbero contrarsi. Se tutto ciò dovesse avvenire non sarà stato solo per effetto delle nuove regole del lavoro quanto per la forza intrinseca di una cultura industrial­e, quella dei nostri imprendito­ri, che si è rivelata capace di affrontare la discontinu­ità. A questa tradizione oggi, più che rivolgere battute velenose, forse dobbiamo chiedere dell’altro coraggio.

Nella stagione che si sta aprendo sarebbe auspicabil­e uno sforzo di ulteriore apertura: una sorta di sinergia tra imprendito­ri che credono nelle loro aziende e le patrimonia­lizzano, capitali pazienti che accettano di sostenere la ricerca e i progetti innovativi, nuove risorse managerial­i che subentrino laddove la staffetta generazion­ale si rivela impraticab­ile. Non è impossibil­e.

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