IL LAVORO DI CREARE LAVORO
Gli imprenditori italiani hanno i riflettori puntati addosso. Non passa giorno che qualche ministro se ne esca dicendo che «gli industriali adesso non hanno più alibi». Il riferimento diretto è alle nuove regole e ai generosi incentivi previsti dal Jobs act ma più in generale si è fatto largo il giudizio che in questi anni gli imprenditori italiani abbiano avuto il braccino corto, nell’assumere e soprattutto nell’investire. A queste opinioni la Confindustria ha replicato con una nota del Centro Studi secondo cui il tasso di investimento delle nostre imprese manifatturiere è tra i più alti al mondo: 23% contro il 13% di Germania e Francia. E il numero delle imprese innovative italiane è indicato come superiore a quelle francesi e britanniche e secondo solo alle tedesche. Al di là delle cifre gli industriali affermano che finora sarebbe stato impossibile sostenere l’occupazione non tanto perché mancava il Jobs act quanto per la caduta delle attività, il vero fil rouge dei terribili anni che abbiamo alle spalle.
La verità è che niente resta mai del tutto fermo e durante la Grande Crisi l’impresa italiana ha subito una metamorfosi. Si è ristrutturata dentro i cancelli della fabbrica e fuori di essi, acquisendo un profilo più snello e favorendo la nascita di filiere produttive competitive. Nel frattempo ha aumentato l’insediamento nei mercati esteri con molte puntate nei Paesi emergenti e conquistando posizioni in quelli di più tradizionale presenza.
Naturalmente non si può dire che tutti gli imprenditori abbiano mostrato entrambe le capacità, che tutti si siano rivelati degli straordinari capitani coraggiosi, anzi proprio il peso assunto dall’export ha generato una drastica polarizzazione delle aziende tra quelle che hanno corso anche sotto la pioggia e quelle travolte dal crollo della domanda interna.
I segnali che in questi giorni arrivano dai territori sono incoraggianti e sarebbe da masochisti ignorarli. Le medie imprese italiane scommettono sulla ripresa al punto che secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo i distretti italiani, smentendo chi ne aveva decretato il de profundis, a fine 2015 recupereranno addirittura i livelli di fatturato del 2008. Se affianchiamo ai dati le dichiarazioni dei responsabili delle associazioni imprenditoriali del Nord sembrano esserci tutte le condizioni per spingere la crescita. E persino i due trimestri che tradizionalmente passano tra aumento della produzione industriale e incremento dell’occupazione potrebbero contrarsi. Se tutto ciò dovesse avvenire non sarà stato solo per effetto delle nuove regole del lavoro quanto per la forza intrinseca di una cultura industriale, quella dei nostri imprenditori, che si è rivelata capace di affrontare la discontinuità. A questa tradizione oggi, più che rivolgere battute velenose, forse dobbiamo chiedere dell’altro coraggio.
Nella stagione che si sta aprendo sarebbe auspicabile uno sforzo di ulteriore apertura: una sorta di sinergia tra imprenditori che credono nelle loro aziende e le patrimonializzano, capitali pazienti che accettano di sostenere la ricerca e i progetti innovativi, nuove risorse manageriali che subentrino laddove la staffetta generazionale si rivela impraticabile. Non è impossibile.