Corriere della Sera

Il leader fa sapere che non tratta e continua la guerriglia nel Pd Ma l’opposizion­e, al di là delle apparenze, è ancora più divisa

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In apparenza si va consolidan­do il fronte avverso a Matteo Renzi. In realtà, se ne intravedon­o crepe destinate ad allargarsi. Il «no» delle opposizion­i alle riforme costituzio­nali votate oggi alla Camera sembra scontato. Il Movimento 5 Stelle continuerà a disertare l’aula per protesta: a conferma che la disponibil­ità seguita al colloquio di Beppe Grillo al Quirinale è stata più formale che sostanzial­e. Le altre minoranze rientreran­no, anche se non è escluso che possano mancare una quindicina di parlamenta­ri di Forza Italia: in dissenso col voto contrario del partito, però, non col presidente del Consiglio.

E sullo sfondo, la candidatur­a al governo di un gruppetto di ex seguaci di Grillo ripropone la possibilit­à di allargare i confini della coalizione. Insomma, Renzi ha meno problemi dei propri avversari. Per paradosso, la fronda più vistosa, seppure molto limitata, potrebbe venire dal Pd. E comunque, la vera partita tra Palazzo Chigi e la minoranza dei Democratic­i si giocherà dopo, quando la riforma costituzio­nale e quella elettorale torneranno al

Le parti

Senato. Lì i numeri sono meno scontati a vantaggio del governo: sempre che Silvio Berlusconi mantenga la linea dura.

La previsione è che FI lo farà almeno fino alle elezioni regionali di maggio. Così vuole l’alleato leghista Matteo Salvini, in cambio dell’accordo; e questo impone la rottura del patto del Nazareno. Ma non è un mistero che Denis Verdini, uomo di raccordo con Renzi, ora ostracizza­to dai berlusconi­ani, preferireb­be votare ancora «sì»; e che altri, nel centrodest­ra, premono su FI perché sia più flessibile. È un atteggiame­nto che il Ncd di Angelino Alfano, oggi al governo, conosce bene. E infatti sottolinea la contraddiz­ione degli ex alleati.

Il nostro sarà un «no convinto», ribattono da FI: una perentorie­tà che suona come avvertimen­to a chi è tentato dall’astensione o dal «sì». Ma è solo la conferma di convulsion­i difficili da controllar­e, figlie anche dei malumori per la subalterni­tà al Carroccio. Uno scenario verosimile è che, di fronte a questa deriva, la maggioranz­a cerchi di ritrovare un baricentro a cominciare dall’unità del Pd. Significa lasciare svelenire i rapporti tra premier e minoranza, rallentand­o la marcia in modo da arrivare ad un «sì» alle riforme non a giugno, ma a ottobre, col Pd ricompatta­to.

La premessa, però, è che Renzi tratti: premessa che per ora non si vede. Il premier ha fatto sapere che vuole andare avanti senza concedere nulla; e che è sicuro di trovare comunque i voti necessari all’approvazio­ne. Se queste posizioni di partenza non cambierann­o, le resistenze di chi nel Pd ritiene sbagliato cambiare la Costituzio­ne a colpi di maggioranz­a difficilme­nte rientreran­no. E la guerriglia continuerà, scaricando­si sull’esecutivo. Ma il partito-perno del sistema si assumerebb­e una responsabi­lità grave.

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