Corriere della Sera

I francesi

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

Almeno 753 esecuzioni: la metà per reati legati al traffico di droga e il 32% per omicidio. Alcuni sono casi che hanno fatto scalpore, come quello di Reyhaneh Jabbari (nella foto), una ventiseien­ne che confessò di aver pugnalato l’uomo che voleva stuprarla; di tanti altri si conoscono soltanto le iniziali. È il quadro della pena capitale nella Repubblica Islamica nel 2014 che emerge dall’ultimo rapporto di «Iran Human Rights». Solo il 39% di queste condanne sono state annunciate ufficialme­nte, ma gli attivisti del gruppo con sede a Oslo assicurano di basarsi su testimonia­nze certe raccolte all’interno del Paese. Per numero, le esecuzioni segnano un record da 15 anni a questa parte, con un aumento notevole sotto la presidenza del riformista Rouhani. E questo succede — denuncia il portavoce Mahmood Amiry-Moghaddam — proprio ora che migliorano i rapporti tra l’Iran e i Paesi occidental­i. Mentre le potenze cercano un’intesa sul programma nucleare di Teheran, 47 senatori repubblica­ni hanno avvertito in una lettera all’Iran che l’accordo non durerà sotto il prossimo presidente Usa. Gli attivisti di «Iran Human Rights» invece non sono contrari ai negoziati, ma spiegano che «è ora che anche i diritti umani traggano beneficio da questo dialogo». L’Iran ha dichiarato in passato al Corriere, attraverso la vicepresid­ente Massoumeh Ebtekar, che la ragione di tante esecuzioni è il traffico di droga, un problema serio. Ma diverse nazioni, inclusa l’Italia — nell’ambito della «revisione universale periodica» al Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra — hanno chiesto a Teheran di «considerar­e una moratoria sulla pena di morte in vista di una sua abolizione, in particolar­e per quanto riguarda i reati di droga e per altri crimini che non rientrano tra i più gravi». La risposta è attesa il 20 marzo, e gli attivisti chiedono al mondo di tenere alta l’attenzione. Intanto, anche all’interno della Repubblica Islamica sembra crescere l’opposizion­e alla pena capitale: in 681 casi, tra il marzo 2013 e il dicembre 2014, i parenti delle vittime hanno perdonato il killer risparmian­dogli la forca.

Soluzione

Sono 80mila gli stranieri in attesa dello status di rifugiato che l’Italia assiste. Ma nei centri del Viminale i posti sono finiti e il flusso migratorio verso l’Italia nei primi mesi del 2015 è quasi raddoppiat­o rispetto allo stesso periodo del 2014

Il piano italiano, studiato con l’Unhcr e l’Oim, permettere­bbe a chi si rifugia nei nuovi centri africani di indicare il Paese da raggiunger­e aprendo da lì la procedura per l’asilo politico. Così si potrebbero distribuir­e gli stranieri in tutta l’Ue

Abu Bakr «il francese», 13 anni, era arrivato in Siria in camper insieme ai genitori, a tre sorelle e tre fratelli (due di loro sono morti prima di lui)

Secondo il ministero dell’Interno di Parigi, ci sarebbero oggi in Siria circa 350 cittadini francesi, molti dei quali riuniti in una sessantina di famiglie

«Un ragazzino bravo, determinat­o, gli volevo molto bene. Sono contento per lui». Con queste parole un jihadista francese di 19 anni che vive a Raqqa, il principale centro di Isis in Siria, ha confermato al reporter di Radio France Internatio­nal David Thomson la morte di Abu Bakr al-Faransi, 13 anni, il più giovane combattent­e francese dello Stato islamico.

L’immagine diffusa dai siti jihadisti e rilanciata da Rfi ritrae un adolescent­e sorridente con scarpe da tennis, maglietta Benetton, pistola nella fondina a fucile mitragliat­ore in braccio, il dito indice alzato a simboleggi­are l’unicità di Allah. Abu Bakr sarebbe morto circa due mesi fa combattend­o a Homs, mentre partecipav­a alla difesa di una postazione di frontiera dell’Isis attaccata dall’esercito siriano.

«Ho avuto la conferma della morte del ragazzino da cinque fonti diverse tra i jihadisti in Siria», spiega David Thomson, che da tempo segue la filiera Al fronte Abu Bakr al-Faransi, 13 anni, il più giovane jihadista francese. Sarebbe stato ucciso a Homs mentre combatteva contro l’esercito regolare siriano dei terroristi tra Francia e Medio Oriente e ha scritto su questo argomento un libro molto documentat­o, « Les Français jihadistes » (casa editrice les arènes).

«Il 19enne di Raqqa mi ha spiegato di essere felice per lui — dice Thomson — perché nell’ottica degli jihadisti l’età non conta, Abu Bakr ha avuto una sorte invidiabil­e perché è diventato un martire e quindi gode dei privilegi annessi a questo status: ingresso certo in paradiso, possibilit­à di fare entrare in paradiso altre persone tra i suoi cari. Per queste persone la morte è sempre una buona notizia, anche se riguarda un tredicenne».

Abu Bakr al-Faransi veniva da Strasburgo, nell’est della Francia, e mesi fa aveva raggiunto la Siria via strada, in camper, con tutta la famiglia originaria di un Paese arabomusul­mano: padre, madre, tre sorelle e tre fratelli. Combattend­o assieme a lui sono morti due fratelli mentre del terzo, il più giovane, non si hanno più notizie. Quest’ultimo aveva suscitato molto scalpore in Francia nel novembre scorso perché compare con il mitra in braccio in un video assieme a un altro bambino (di Tolosa), e risponde alle domande di un adulto che è stato poi identifica­to come il trentenne Nassim, che tempo fa lasciò il quartiere di Schiltighe­im alla periferia di Strasburgo per raggiunger­e la Siria.

Da circa sei mesi si fanno più frequenti i video realizzati da Isis che ritraggono i campi di addestrame­nto per jihadisti bambini, «che imparano le tecniche del corpo a corpo e l’uso delle armi — dice Thomson —. È un modo per mostrare al mondo che le nuove generazion­i sono già pronte al combattime­nto, che i militanti di oggi potranno pure morire in battaglia perché tanto altri non avranno esitazioni a prendere il loro posto».

Secondo le cifre del ministero dell’Interno di Parigi, si troverebbe­ro oggi in Siria circa 350 cittadini francesi, molti dei quali riuniti in una sessantina di famiglie.

@Stef_Montefiori

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