Corriere della Sera

Paolo VI al bivio tra mediazione e realismo

I cattolici rimasero inerti. E alla fine prevalse la volontà di non destabiliz­zare il governo

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Lper recapitare alcuni messaggi di Moro dalla «prigione del popolo» aveva già raccontato nelle precedenti audizioni. Forse reticenti e forse no, ma non sono domande reiterate all’infinito a poter scardinare l’eventuale cortina di omertà. L’effetto è semmai di provocare risposte che — a quasi quarant’anni di distanza dai fatti — rischiano di sollevare elementi di confusione e nuovi misteri, veri o presunti.

Per esempio quando «don Antonello» dice che nella telefonata del 5 maggio ‘78, il brigatista a commission­e Moro ha interrogat­o il nunzio Mennini: il giovane prete amico di Moro, per alcuni, confessore dello statista nella prigione delle Br. L’interrogat­orio ha risvegliat­o l’interesse per i lavori della commission­e, da cui non ci si aspettano grandi novità, dopo ben cinque processi e la commission­e stragi (attiva per 13 anni). Mennini ha ribadito di non aver confessato Moro, come ha testimonia­to già sette volte. In realtà queste testimonia­nze non sono in grado di illuminare le zone d’ombra di quei giorni drammatici. È invece il compito alla ricerca storica.

La figura di Mennini richiama il problema del mondo cattolico di fronte al rapimento di uno dei suoi figli più illustri. Il giovane prete allora dipendeva dal Vicario di Roma, Poletti, che teneva i rapporti tra Paolo VI e la famiglia Moro, impegnata a salvare la vita di Aldo. Dal carcere, Moro guardava a Paolo VI, come un attore terzo rispetto al governo della fermezza, per mediare con le Br, magari interessat­e a un riconoscim­ento. Contava sull’«umanitaris­mo» cattolico, sulla diplomazia e soggettivi­tà internazio­nale vaticana. Il suo modello era la liberazion­e di Giuliano Vassalli dalle SS, richiesta da Pio XII nella Roma occupata dai nazisti. Paolo VI era, invece, stretto tra l’ansia di salvare Moro e la volontà di non destabiliz­zare il governo. Andreotti vigilava su quest’ultimo aspetto in contatto con il segretario del che lo chiamò per fargli avere l’ultima lettera di Moro alla moglie aggiunse: «Dica alla signora che non abbiamo trovato la persona da lei indicata e quindi ho dovuto chiamare nuovamente lei » , cioè don Mennini. Questa, per il presidente della commission­e Fioroni, «è un’importante novità che conferma l’esistenza di un canale di ritorno», dalla famiglia Moro ai sequestrat­ori, «interrotto pochi giorni prima del ritrovamen­to del cadavere». Può darsi. Ma può darsi pure che, come accaduto altre volte, Papa, Macchi: «Mai il Vaticano chiese che si trattasse» dichiarò il leader DC. Forse non è stato proprio così. Montini ha tentato di allargare al massimo lo spazio del possibile. Resta l’interrogat­ivo di quanto il problema italiano, rappresent­ato da Andreotti, non abbia spinto il Papa all’autocensur­a nell’azione.

Il card. Confalonie­ri confidò al vaticanist­a Benny Lai: il Vaticano era diviso tra fermezza e trattativa («Il Santo Padre gradirebbe questa seconda soluzione»). Lo sperava anche Moro: «Una soluzione mediatrice» al di là della ragion di Stato. In Vaticano c’era grande angoscia — secondo lo scrittore Giancarlo Zizola, che riportava la voce di un tentato sequestro del Segretario di Stato, Villot. Era l’atmosfera surreale di Roma in quei giorni d’impotenza. Non mancarono però iniziative vaticane: i contatti con i brigatisti carcerati tramite i cappellani, un telefono alla Caritas internazio­nale per ricevere messaggi, la raccolta di dieci miliardi per il riscatto... Niente servì.

I cattolici erano piuttosto inerti. I Laureati cattolici, ramo dell’Azione cattolica vicino a Moro, furono per la fermezza. Non era questione di progressis­ti o conservato­ri. Lo si vede da un lettera, pubblicata su «Lotta continua» il 19 aprile 1978 (un mese dopo il rapimento), in cui si chiedeva di trattare. La firmarono il leader dell’Azione cattolica, Mario Agnes (con l’assenso vaticano), vari vescovi (tra cui alcuni ausiliari di Poletti), Dalla prigionia Lo statista sperava nella diplomazia vaticana che ottenne dalle SS la liberazion­e di Vassalli La politica La preoccupaz­ione di Andreotti era che il governo non subisse scossoni un gruppo di dossettian­i, Carlo Bo e Turoldo. Poi venne la lettera del Papa alle Br il 22 aprile 1978, che definì la posizione della Chiesa. Un testo commovente, scritto dal Papa («Vi prego in ginocchio»), in cui c’era però un chiaro limite quando si chiedeva il rilascio di Moro «sempliceme­nte, senza condizioni». Sul testo autografo del Papa un’altra grafia cancellò: «Senza alcuna imbarazzan­te condizione». Forse fu Macchi. Andreotti vide il testo prima. Nonostante il grande afflato, la posizione era chiara. Il Papa non mediava tra Stato e Br. Non lasciava solo il governo. Fu un dolente realismo di fronte alla decisione delle forze politiche italiane, che non vedevano alternativ­e.

Moro si sentì abbandonat­o e scrisse a Mennini: «Il Papa non poteva essere un po’ più penetrante? Speriamo che lo sia stato senza dirlo». E ancora: «Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo». La responsabi­lità della morte di Moro è tutta di chi lo uccise: va ribadito. Si nota però come un cattolices­imo postconcil­iare così vivace, che parlava tanto di profezia, si ritrovò attonito, quasi nascosto dietro a un Papa solo e malato, stretto tra contrastan­ti esigenze. Gaetano Afeltra vide il Papa celebrare i funerali di Moro in Laterano e commentò con Zizola: «Ha sentito la voce? Una voce d’oltretomba. Con Moro, un poco è morto anche lui». Morì, il 6 agosto, 3 mesi dopo.

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