L’INCERTEZZA DEL DIRITTO FRA TRENTO E LA CAMPANIA
Vincenzo De Luca, il vincitore delle primarie campane, e il Pd, il partito che lo ha scelto nonostante la condanna in primo grado e l’incombente sospensione dai pubblici uffici, si sono messi in un bel guaio. Comincia a circolare, infatti, un’ordinanza del Tar di Trento che incrina molte loro certezze. E che smentisce di fatto la principale tesi difensiva dello stesso De Luca. Cosa aveva detto a Lucia Annunziata? Che la legge Severino non gli faceva «né caldo né freddo», perché una volta eletto governatore avrebbe presentato ricorso al Tar che gli avrebbe sicuramente dato ragione. Ma ecco il punto. Loris Moar, sindaco di Palù del Fersina, anche lui condannato in primo grado per abuso di ufficio, è stato appena «congelato» in ossequio alla Severino. Il suo ricorso, a differenza degli altri già noti, è stato respinto perché inconsistente sul versante della presunta incostituzionalità della legge. Di scontato, dunque, non c’è proprio nulla. Ma non è solo dei «freddi» tecnicismi legati all’interpretazione della legge che De Luca e il Pd dovrebbero preoccuparsi. C’è piuttosto da valutare l’aspetto «caldo» dei sacri principii giuridici. È disposto il Pd a sacrificarli in nome di una candidatura regionale? Quando sostiene che il voto popolare delle primarie ha «legittimato» il candidato condannato, il Pd non fa che ripetere un vecchio argomento caro a Berlusconi. Allora, però, quell’argomento era ritenuto «eversivo». Ancora. Quando ad opporsi alla Severino era de Magistris, il Pd si impancava a difensore dello Stato di diritto. Tutto archiviato? E poi, che fine fa l’autonomia della magistratura, quando De Luca intona il mantra del meccanicismo delle ordinanze? Ci sarebbe infine da parlare della Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla Severino. Ma evidentemente De Luca e il Pd danno per scontata anche la sua autorevole decisione. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it uando la politica traduce le sue ambizioni di primato in specifiche decisioni di sviluppo e di riforma, si ritrova fatalmente a fare i conti con la loro necessaria implementazione, con i modi cioè in cui esse possano essere trasposte in comportamenti e fatti concreti. Si ritrova quindi a doversi affidare agli ambienti tradizionalmente «specialisti» dell’implementazione: a una ristretta cerchia oligarchica; o a ristretti circuiti tecnocratici; o alla tradizionale burocrazia, titolare dei minuti poteri quotidiani. Una politica che non possa contare su una sua oligarchia, su una sua tecnocrazia, su una sua buona burocrazia, è una politica letteralmente inerme, destinata a restare su un decisionismo di massima, talvolta puro esercizio di annuncio.
Se si legge in controluce l’attuale realtà politica italiana si possono intravedere i segni di