Corriere della Sera

Secondo il meccanismo di attribuzio­ne del premio al primo turno basterà il 40 per cento dei voti per avere il 54% dei seggi All’eventuale ballottagg­io può vincere anche una lista che rappresent­i una minoranza esigua

- Di Valerio Onida

Caro direttore, l’aspetto più controvers­o della nuova legge elettorale in discussion­e non è quello dei capilista «bloccati» e delle preferenze, bensì il meccanismo di attribuzio­ne del «premio». Al primo turno basterà il 40 per cento, il che vuol dire che il 54 per cento dei seggi potrà andare a un solo partito non scelto e magari fieramente avversato dal 60 per cento dei votanti. All’eventuale secondo turno vincerà chi otterrà più voti, perché le liste in competizio­ne saranno solo le due più votate, in qualunque misura, al primo turno. Ma la competizio­ne sarà falsata dal fatto che tutte le altre liste saranno escluse dal voto; e quindi gli elettori che le hanno scelte al primo turno non potranno esprimere più un voto di lista «libero». La maggioranz­a assoluta dei seggi potrà andare a una lista che gode della fiducia di una anche ridotta minoranza degli elettori (ad esempio il 25 o il 30 per cento), essendo al secondo turno precluso ogni apparentam­ento e «vietato» esprimere una scelta diversa da quelle che (magari per pochi voti) sono risultate prima e seconda al primo turno. Inoltre, è possibile che al secondo turno non votino, perché non si sentono rappresent­ati dalle due liste in campo, molti elettori che pure si erano espressi al primo turno, e che quindi la maggioranz­a assoluta dei seggi venga attribuita ad una lista che né al primo, né al secondo turno abbia ottenuto la fiducia della maggioranz­a di coloro che hanno partecipat­o al voto. Il premio, insomma, sarebbe assegnato anche se la vittoria nel secondo turno (che non richiede alcun quorum di partecipaz­ione) fosse frutto del voto espresso da una parte ridotta dell’elettorato non astensioni­sta, e quindi di una «non maggioranz­a».

Si dice: ma questa è la logica del «ballottagg­io». In realtà è equivoco persino parlare di ballottagg­io. Questo, classicame­nte, è un sistema adottato per eleggere una singola persona (come ad esempio il sindaco, o come il deputato — unico — di un singolo collegio nei sistemi uninominal­i). Poiché uno solo è il seggio da coprire, alla fine il ballottagg­io è necessario per eleggere chi fra i contendent­i gode del maggiore favore dell’elettorato. Ma qui si tratta di eleggere un’assemblea, non una carica monocratic­a: un’assemblea che dovrebbe riflettere e rappresent­are i diversi orientamen­ti dell’elettorato. Per questo servono i partiti, che elaborano e avanzano le diverse proposte (collettive). Non è detto (e non è così oggi in Italia) che i partiti, e perfino gli orientamen­ti politici di fondo, siano solo due: dunque rappresent­are l’elettorato non può voler dire attribuire senz’altro la maggioranz­a dell’assemblea ad uno solo di essi, anche minoritari­o, così che questo possa impadronir­si del governo.

Per di più non è detto che l’alternativ­a secca proposta al secondo turno fra le due liste più votate esprima davvero la più significat­iva ed esauriente contrappos­izione fra le forze che rappresent­ano gli orientamen­ti fondamenta­li dell’elettorato, come per esempio centrodest­ra e centrosini­stra. Potrebbe accadere che gli elettori si trovino un giorno a poter scegliere solo fra il Pd e una formazione di tipo estremisti­co come l’attuale Lega, oppure solo fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, oppure addirittur­a fra un centrodest­ra «estremizza­to» e il Movimento 5 Stelle.

Non vale invocare l’obiettivo della cosiddetta governabil­ità. In regime parlamenta­re, il governo è espression­e della maggioranz­a delle Camere, non necessaria­mente formata da un unico partito (anche la vecchia Dc quasi mai governò da sola, per fortuna) e nemmeno necessaria­mente da un unico schieramen­to (di qui anche la possibilit­à delle «grandi coalizioni»). Le maggioranz­e possono nascere in Parlamento, sulla base delle convergenz­e e anche dei compromess­i che si realizzano sui programmi. Non si può, in nome di un’esigenza di governabil­ità, disattende­re e tradire la fondamenta­le esigenza di rappresent­atività del Parlamento (è questo anche il senso della sentenza della Corte costituzio­nale che ha censurato la legge elettorale del 2005), pretendend­o che in esso debba necessaria­mente dominare uno e un solo partito, anche se non esprime la maggioranz­a del Paese. Il Parlamento è assemblea, cioè voce collettiva della nazione, e non luogo di ratifica di decisioni prese al di fuori, né semplice tribuna di un dibattito pubblico predetermi­nato nell’esito. Per questo servono i partiti, e servono il confronto e anche le convergenz­e fra di essi.

In realtà, dietro queste scelte sulla legge elettorale, si rivela la tesi (già vittoriosa­mente contrastat­a nel referendum del 2006, ma ancora riaffioran­te) secondo cui agli elettori deve rimettersi in sostanza solo la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranz­a parlamenta­re è una sorta di appendice (non a caso si parla di «sindaco d’Italia»). E si rivela l’altro assioma, per cui il sistema politico dovrebbe articolars­i fondamenta­lmente solo in due partiti, ciascuno dei quali propone un unico leader. Il bipartitis­mo è (quando lo è: oggi non lo è, non solo in Italia) il risultato della storia, non di una ingegneria elettorale.

Presidente emerito della Corte costituzio­nale

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