Corriere della Sera

IL POTERE SENZA CONTRAPPES­I

Garanzie La riforma approvata dalla Camera è necessaria, ma servirebbe un maggiore equilibrio: a partire dal rafforzame­nto della Consulta e delle prerogativ­e del capo dello Stato, magari concedendo­gli il diritto di accesso a un referendum

- Di Michele Ainis

Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislativ­e, per la seconda approvazio­ne. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenir­e esclusivam­ente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederann­o. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.

Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiame­nti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderan­no entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 — che regola la funzione legislativ­a — s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituent­e ne ospiterà 430. Una grande, grandissim­a riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzio­ne.

Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzio­nale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzio­ni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinear­le, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamenta­rismo scritto e un presidenzi­alismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.

In secondo luogo, è altrettant­o necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzion­i. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimenta­to un bipolarism­o imperfetto con un bicamerali­smo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.

Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenir­e su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattende­re a maggioranz­a semplice, ma in un caso a maggioranz­a assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’iter legis. E dunque non è vero che semplifich­i la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzion­i. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissari­o delle crisi di governo, nonché — di fatto — il potere di decidere l’interruzio­ne anticipata della legislatur­a.

Da qui la preoccupaz­ione che s’accompagna alla riforma. Servirebbe­ro maggiori contrappes­i, più contropote­ri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizion­i, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformator­i, qualche parolina in più non guasterebb­e. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzio­nale, spalanc an d o il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendo­gli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusion­e vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzion­i. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobi­le. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.

Obiettivi Nella casa delle istituzion­i l’elettore non dovrebbe essere trattato come un ospite

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