Corriere della Sera

«Noi, spose bambine prigionier­e del campo»

Nella città dei profughi in Giordania, dove la gente soffre e i bambini ridono, tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis

- di Sara Gandolfi

dalla nostra inviata a Zaatari

Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po’ stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. «Voglio fare il soldato». Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà.

Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d’acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi.

Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Dara’a, in Siria, l’11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all’ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d’affitto – l’80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle «host communitie­s» – o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterran­eo. Altri, alla spicciolat­a, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l’esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigiona­ti nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte.

Gli ultimi arrivati — pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo — finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalier­i difficili da conquistar­e. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare («il Paese ha già troppi disoccupat­i» spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro.

«Io non voglio restare» assicura Muhammad, 34 anni, che s’è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. «Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra». Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. «Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie». Lei non parla né si fa fotografar­e. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante.

Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall’organizzaz­ione internazio­nale non governativ­a Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall’altra quelli per le donne. Quattordic­i latrine

per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. «In Siria avevano il bagno in casa, l’acqua corrente, la tv satellitar­e, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo» spiega Andy Bosco, responsabi­le Oxfam al campo. «Si attaccavan­o alle tubature comuni e portavano l’acqua ai container. Ora costruirem­o una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna». Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrut­ture.

Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le «abitazioni» messe a disposizio­ne dall’Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliar­e consolidat­o, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantisco­no la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis.

Circolano troppi uomini giovani, nullafacen­ti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattat­e perché «quando c’è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta», avverte la responsabi­le dell’oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassett­e anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l’ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L’ordine è non stare in giro troppo, da sola. «Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono» dice la preside di una delle sei scuole gestite dall’Unicef con i fondi dell’Unione europea.

Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi, la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l’insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettent­i. «Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato».Vuoi continuare? « Akeed…Taba’an, certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatic­a. Ma l’università costa, ci sono pochissime borse di studio». Ti manca la Siria? «Là c’era il verde, qua è solo deserto».

I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent’anni in tre, «in Siria ci andavamo, ma qui...». Si arrabattan­o a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d’oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall’entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all’aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d’affari da 10 milioni al mese.

C’è pure la «boutique» di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettie­re, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, «ma fuori lo paghi 15». Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di So’ad che prende 7 dinari per taglio e meche. Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni.

Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplica­ti, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l’imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, «ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzan­o». Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittim­i.

Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. «Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardava­no. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria». Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? «No, sarebbe un tradimento. Lo amavo».

Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. «Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui» sussurra.

Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: «Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarl­o, aiutateci». Perché non può? «Ha quasi 15 anni...».

Ali, 35 anni, decoratore d’interni di Dar’a, con la figlia Maya. «I militari di Assad hanno appiccato il fuoco alla mia casa. Sono scappato dalla finestra. Laggiù non c’era più un posto sicuro dove vivere. Ma anche da rifugiato sono un bersaglio»

Riham, 16 anni, di Damasco, vuole studiare informatic­a all’università. «Ma le borse di studio per noi siriani sono così poche»

Reema Diab, la dottoressa giordana che dirige la maternità del campo. «Non cambierei questo posto per nessun ospedale al mondo»

Una giovane madre

Il campo di Zaatari

Wedad, 13 anni, vive in una «host community» ad Amman. Ed è molto brava in matematica

Foto di (Echophoto journalism)

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