Il pacemaker non funzionò, un milione alla paziente finita in coma
L’apparecchio impiantato nel petto di un’infermiera nel 2008. Condannati la società distributrice e due ex manager
euro. Poi, introdotto da conoscenti comuni, ecco il «Bicio». Il gran burattinaio. Eccitato dalla preda e dal bottino, aveva alzato il prezzo del riscatto (350 mila euro) e progettato il piano B (vendere il «servizio» al direttore di «Chi» Signorini).
Dall’entourage del «Bicio» dicono che il vero «Bicio» è un altro, per esempio quello che aveva inseguito uno scippatore, l’aveva bloccato e consegnato alle forze dell’ordine, quello che si era rimesso a lavorare onestamente come freelance per un’agenzia fotografica, quello innamorato perso della figlioletta nella casa popolare sui Navigli. Dopodiché di Pensa, leggendo le intercettazioni dell’inchiesta guidata dal tenente colonnello Alessio Carparelli e coordinata dal procuratore aggiunto Alberto Nobili e dal pm Giancarla Serafini, al di là delle promesse di violenze ( « Io lo distruggo nel mondo...», riferito a Elkann), dopodiché
Il pacemaker non entra in funzione quando è disperatamente necessario, fallisce il colpo, non riesce a far ripartire il cuore malato e la donna precipita in un coma vegetativo che oramai dura da quattro anni e mezzo. Per quell’apparecchio «malfunzionante» impiantato nel 2008 nel petto di un’infermiera 42enne di San Donato Milanese la società distributrice e due suoi ex manager accusati di lesioni colpose gravissime sono stati condannati a pagare alla vittima e ai suoi familiari oltre un milione di euro di risarcimento danni.
A ottobre 2010 il cuore di Maria si ferma improvvisamente. Il pacemaker-defibrillatore distribuito dalla St.Jude Medical Italia, ma prodotto negli Usa dalla casa-madre americana, secondo l’accusa non riesce a dare la scarica elettrica in grado di rimetterlo in moto. A riuscirci sono i sanitari del 118 i quali, però, intervengono quando è già troppo tardi per evitare che il cervello della signora subisca danni permanenti dal blocco della circolazione sanguigna. Le indagini avviate inizialmente dal pm milanese Ferdinando Esposito e sviluppate dal viceprocuratore onorario Alberto Dones si concludono con l’accusa di lesioni colpose gravissime nei confronti del presidente e dell’amministratore delegato della St. Jude Medical Italia. Per il pm, il software del pacemaker non era stato aggiornato nonostante a gennaio 2008 alla Food and drug administration, l’ente federale Usa, la casa costruttrice avesse fatto arrivare una segnalazione di allarme che non era stata recepita in Italia dai ministeri della Salute e dello Sviluppo economico. In difesa della società l’avvocato Mario Zanchetti ha sostenuto che il pacemaker funzionava regolarmente e che il software era aggiornato, mentre per i legali degli imputati, gli avvocati Antonio Carino e Raffaella Quintana, l’apparecchio aveva svolto il suo compito ma purtroppo la paziente era affetta da una «patologia molto grave». Le difese hanno già annunciato ricorso in Appello contro la condanna. Per le lesioni il giudice ha condannato gli imputati a 2.000 euro di multa ciascuno e, con la St.Jude Medical Italia a risarcire le parti civili, tutte assistite dagli
L’accusa
Per l’accusa due manager di «St. Jude Medical» sono responsabili di lesioni colpose gravissime per il cattivo funzionamento del pacemaker impiantato su una donna poi finita in coma avvocati Nicola Brigida e Marcello Gentili: 476 mila euro alla donna, 100 mila euro ciascuno al marito e ai loro tre bambini e 41 mila in tutto ai tre fratelli e alla suocera. Prescritta la contravvenzione per l’immissione sul mercato di «prodotti pericolosi», accusa che il pm aveva modificato in «adulterazione» di medicinali chiedendo di trasmettere gli atti alla Procura per procedere contro gli imputati e i ministri in carica all’epoca che non avrebbero impedito che il pacemaker fosse commercializzato.
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