QUEL PROCESSO LETTERARIO SENZA PROVE (SE NON MENTALI)
Tutto il processo «è stato dibattuto su una certa idea della psicologia della letteratura benpensante», una «psicologica aggettiva» che fornisce di «attributi le proprie vittime». Poiché le «prove materiali» sono «incerte e contraddittorie, si è fatto ricorso alla prove mentali; e dove prenderle se non nella testa degli accusatori? Si sono dunque ricostruiti di fantasia ma senz’ombra di dubbio i moventi e la concatenazione delle azioni». Così scrive il semiologo Roland Barthes in Miti d’oggi (1957), nel capitolo «Dominici o il trionfo della letteratura», dedicato a un processo francese, che fece molto scalpore a metà del ‘900, dove si condannò un pastore — sostiene Barthes — grazie all’«alleanza» tra la giustizia e la letteratura in voga all’epoca: la prima, attraverso i magistrati, si serviva della «maschera realistica del racconto rurale», mentre la seconda, con giornalisti e scrittori, cercava in aula un nuovo «documento umano». Cosa c’entra con l’assoluzione di Berlusconi? L’impianto retorico dell’accusa, uscita sconfitta, può essere letto come il tonfo della letteratura moralscandalistica che è stata prodotta attorno e dentro il processo Ruby: riassunta dalla requisitoria finale del sostituto pg della Cassazione Eduardo Scardaccione, che ha citato i «bravi» dei Promessi sposi, il cinema demenziale di Mel Brooks, una definizione da fantasy (Berlusconi come «drago») e persino l’espressione del brigatista Franco Piperno (la «geometrica potenza» delle Br nell’attentato di via Fani). Lo scopo? Dare una violentissima immagine mentale delle azioni di Berlusconi, che possa sopperire alla mancanza di prove ritenute certe. Senza dimenticare il famoso giudizio di Ilda Boccassini su Ruby, «furba di quella furbizia orientale propria della sua origine», degno di un romanzo psicologico di bassa lega, che rivaleggia con il falso thriller rosa del Cavaliere: «Ruby, la nipote di Mubarak».
@criticalmastra Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it n questi ultimi giorni si è aperto a Trieste un acceso dibattito tra genitori e istituzioni per l’introduzione negli asili del «Gioco del Rispetto», un laboratorio didattico «volto all’abbattimento di quegli stereotipi sociali che imprigionano maschi e femmine in ruoli che nulla hanno a che vedere con la loro natura».
Abbiamo davvero bisogno, mi chiedo, di un programma che insegni ai bambini le gioie del travestimento e alle bambine che possano aspirare a fare mestieri da uomini, in tempi in cui Samantha Cristoforetti ci parla dallo spazio? Il tabù delle professioni solo maschili è caduto ormai da tempo nella nostra società. Ci sono donne nei pompieri, nelle forze dell’ordine, donne che guidano navi da guerra e che pilotano caccia.
Premetto che non conosco i dettagli del progetto e sono sicura della serietà e della buona fede delle persone che lo hanno ideato e approvato — tutto quello che fa lavorare i bambini sull’emotività è giusto e importante — tuttavia questa notizia mi ha suscitato delle riflessioni. Il «facciamo finta che», mi sono chiesta, non appartiene da che mondo è mondo alle modalità di gioco dei bambini? Io, ad esempio, ho sempre provato un vero orrore per i costumi femminili, detestavo le principesse, i pizzi, il colore rosa, se c’era un ruolo che rivendicavo per me era quello del comandante di Fort Alamo o di un capo indiano, e in queste attribuzioni — che avvenivano cinquant’anni fa — nessuno mi ha mai preso in giro né represso in modo tale che io me ne ricordi come di una ferita. Non solo, ma giocando mi facevo sempre chiamare con un nome maschile, perché quella era l’energia che sentivo di avere addosso, e tutti intorno a me stavano al gioco. L’idea che i bambini abbiano bisogno di essere edotti in queste manifestazioni spontanee dell’età ha per me qualcosa di deprimente, perché sottovaluta la libertà e la creatività che c’è in ogni essere umano, specie se è piccolo.
Premetto che appartengo alla generazione che si è abbeverata ai libri della compianta Elena Giannini Belotti; la stessa generazione che, quando ha avuto i figli, non ha potuto far altro che osservare sgomenta che la stragrande maggioranza dei maschi amava fare brum brum, mentre le femmine adoravano correre per casa travestite da fate.
Se fossi cresciuta in questi anni, sicuramente sarei stata classificata come una bambina sofferente di disforia di genere, e sarei stata avviata a un percorso terapeutico adeguato, dato il mio aspetto androgino e la mia predilezione per i mestieri allora proibiti alle donne. Sarei stata più felice? Contemplando con serenità la mia vita, ormai abbastanza lunga, penso di poter con una certa sicurezza dire di no. Sono una natura libera e il venire imprigionata in qualsiasi definizione mi rende insofferente. Per tutta la mia infanzia ho sognato una carriera militare, poi quando mi sono innamorata di un ragazzo, ho desiderato di sposarlo e di fare tanti figli con lui. Alla fine, dopo una vita sentimentale piuttosto intensa, ho privilegiato la mia natura solitaria, condividendo la mia vita in campagna con un’amica.
Per questa ragione mi interrogo sempre sulla centralità che ha preso nella nostra cultura l’urgenza di definire — fin dalla più tenera età — quella che sarà la nostra identità sessuale adulta. L’eros è una parte importantissima della persona e ci sono tante sfumature di eros quante sono gli esseri umani. Questo prepotente insinuarsi dei metodi educativi nella parte più segreta e intima dei bambini è qualcosa di inquietante. Da che mondo è mondo, i piccoli d’uomo hanno scoperto da soli come nascono i figli e cosa fanno gli adulti quando si appartano. Il percorso di queste scoperte coincide con quello del corpo, ed è un percorso fatto di penombre, di cose nascoste, di piccole conquiste, di grandi e improvvise folgorazioni.
Da sempre, i bambini sperimentano tra di loro Libertà Ho sempre provato un vero orrore per i costumi femminili, detestavo le principesse, i pizzi, il colore rosa, per me rivendicavo il ruolo di capo indiano