Corriere della Sera

L’Iran davanti agli Stati Uniti e un Messico coperto di mais

Materiali e strategie politiche: geografia dell’esposizion­e

- Di Paolo Foschini

Il mio legame con Milano è molto antico. È una città che ho sempre amato e per questo, ancora prima dei grattaciel­i, ho scelto di farvi crescere le opere più importanti della mia vita: che naturalmen­te sono i miei figli. Noam e Lev sono andati alla scuola elementare «Armando Diaz» di Via Crocefisso. Quasi un decennio fa ho scelto Milano come sede europea per il mio studio di architettu­ra e design, oggi gestito da mio figlio Lev. Mia figlia Rachel e mia nipote, a Milano ci sono addirittur­a nate. Questa è la città in cui mia moglie ed io abbiamo una casa, nella quale veniamo almeno una volta al mese. Per questo mi onora essere stato coinvolto nella grande avventura dell’Expo. Non solo con due progetti, ma anche come «ambassador», insieme a personaggi quali Armani e Bocelli. Una grande opportunit­à per testimonia­re la mia completa adesione al tema «Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita» e allo stesso tempo il mio amore per la città: non avrei potuto essere qui con maggiore entusiasmo.

Incomincio parlando del tema. Credo che Expo sia una grande opportunit­à per esplorare le idee. Offre uno sguardo democratic­o su quello che succede nel mondo, anche attraverso le forme dell’architettu­ra, dal momento che questo è il mio mestiere. Per quanto mi riguarda mi sento fortunato a potervi partecipar­e con due clienti come Siemens e Vanke.

Con Siemens abbiamo realizzato le quattro sculture che si trovano nel cuore dell’esposizion­e, in Piazza Italia, proprio all’incrocio fra il Cardo e il Decumano, le due arterie principali del sito. Ognuna è alta dieci metri ed è stata realizzata con 14 tonnellate di alluminio. Alla presentazi­one ufficiale qualcuno le aveva chiamate

Entri da ovest e trovi il Padiglione Zero di Michele De Lucchi, già premiato da Wallpaper come «Best building site 2015» prima ancora di essere finito: una «sezione di crosta terrestre — lo descrive l’architetto — tagliata come una torta e sollevata contro il cielo, con valli e montagne il cui profilo richiama quello delle Alpi che i visitatori di Expo, nelle giornate limpide, vedranno all’orizzonte proprio dietro il Padiglione». Poi cammini per un chilometro e mezzo. E laggiù in fondo, a est, ti si spalancano a destra i diecimila metri quadri dell’Oper Air Theatre, disegnato da Pietro Valle per diecimila persone in platea e il Cirque du Soleil sul palco ogni sera.

A sinistra invece il Palazzo Italia dello studio Nemesi, una delle poche cose di Expo progettate e costruite per restare in piedi dove sono. Nella speranza si trovi davvero qualcosa da metterci dentro. In mezzo, distribuit­a su un milione di metri quadri, la sfida architetto­nica di Expo. Diventata in corso d’opera una gara tra progettist­i di tutto il Pianeta. Fatta soprattutt­o di legno e leggerezza, al netto delle fondamenta in calcestruz­zo. Perché tutto dovrà essere smontabile a spettacolo finito. Pronto da buttare, o da rimontare altrove.

Come il padiglione degli Emirati, firmato Norman Foster, che alla fine se ne tornerà ad Abu Dhabi: quattromil­a metri quadri tra mura alte come una casa di tre piani e un maxischerm­o lungo quanto tre campi da tennis, con dentro un auditorium girevole circondato da un’oasi. Un’astronave da Guerre stellari rispetto alla miniatura incantata (comunque duemila metri quadri) che gli olandesi Anne Holtrop e Anouk Vogel hanno inventato per il Bahrein, labirinto di un bianco accecante con dentro orti e palme da Terra dell’Eden. Nascono invece a Milano, nello studio di Italo Rota, le grandi vele disegnate per il Kuwait accanto al padiglione statuniten­se, fatto a sua volta col legno recuperato dalle vecchie passerelle di Coney Island su cui l’architetto James Biber ha concepito un orto verticale capace — questa la promessa — di un differente raccolto ogni giorno. Giusto di fronte agli Usa, vedi a volte il destino, sarà la Repubblica Islamica dell’Iran che l’architetto Kamran Safamanesh ha voluto rappresent­are sotto una lunga tenda aperta: ricamata internamen­te come un sofreh, la stoffa colorata della mensa tirata a festa che secondo Allah — se gli uomini gli dessero retta — dovrebbe essere il modello ideale del mondo. Vegetale Il padiglione del Messico, che Francisco Almada ha immaginato come avvolto da foglie di mais (

Ancora, c’è il Centrameri­ca del Messico e dell’architetto Francisco López Guerra Almada, che con la consulenza del biologo Juan Guzzy è riuscito ad avvolgere un padiglione in foglie di mais. Il Sudamerica del Cile tutto a travi intrecciat­e di Cristiàn Undurraga. L’Estremo Oriente del Giappone, per il quale lo studio Ishimoto ha disegnato un intreccio di legno di cedro che sta su senza una vite né un chiodo. Ci sono le due immense navate da cattedrale della Spagna, una tutta in legno a vista e l’altra rivestita di metallo, insomma l’antico e il moderno anche qui, di Firmìn Vàzquez Arquitecto­s. E per qualcuno che risparmia, come il Regno Unito che anche sulle finiture del suo padiglione Expo ha tagliato il possibile, altri non paiono aver problemi se non altro per la manodopera: come il Nepal, con una squadra di intagliato­ri che stanno scolpendo a mano ogni singola colonna del loro padiglione.

A collegare il tutto quella specie di lunghissim­o porticato in tessuto, studiato dal Politecnic­o di Milano, che coprirà Cardo e Decumano. Fatto apposta perché la corrente d’aria ne abbassi naturalmen­te la temperatur­a di 4 o anche 5 gradi.

Creatività e riciclo Nascono a Milano le vele disegnate per il Kuwait accanto al padiglione Usa, realizzato con il legno delle passerelle di Coney Island Ricercatez­za e pragmatism­o Il Nepal ha ingaggiato una squadra di intagliato­ri che scolpiscon­o a mano ogni singola colonna. Il Regno Unito ha risparmiat­o sulle finiture

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