«È un laboratorio del bello dove ogni Paese si ritrova»
usando attrezzature e sistemi di arredo sostenibili: in grado di essere facilmente smontati o integrati dai futuri abitanti».
La sostenibilità ambientale sarà al centro?
«Sicuramente sì. Un altro dei progetti che abbiamo seguito riguarda proprio la valutazione dei padiglioni base della sostenibilità ambientale: più carbonio c’è e peggio fa all’ambiente, quindi si valuta come mitigare l’effetto».
Lo dica da architetto e da esperta del cantiere: vedremo cose belle dal primo maggio?
«Sono convinta che ciascuno troverà qualcosa di interessante e di proprio gusto. Nel complesso, direi che alcuni padiglioni hanno un ottimo livello progettuale, penso ad esempio a quello del Cile. Così come sono di grande impatto le strutture progettate da De Lucchi, a partire dal padiglione Zero: questi grandi paesaggi che diventano architettura, che sono sintetici e trasmettono un’immagine chiara e molto forte. È interessante anche il padiglione del Bahrein, perché rappresenta un paesaggio di oasi, con spazi verdi delimitati da pareti ondulate di calcestruzzo armato, con un mix molto efficace. Tra l’altro, è stato
Decisioni Luisa Collina con Romano Bignozzi (responsabile dei Lavori Expo)
Chi è
Luisa Collina è ordinario di Design presso il dipartimento di Design del Politecnico di Milano, nonché responsabile delle relazioni internazionali della facoltà del Design. È anche delegata del rettore per Expo e i Grandi eventi
Il PoliMi ha gestito diversi progetti per questa esposizione, a partire dal coordinamento scientifico dei 9 cluster, gli spazi dove più Paesi raccontano un prodotto o un’area geografica. Il Polimi ha avuto i contributi di 17 facoltà di vari atenei nel mondo rende evidente il profilo del grande «Expo Centre» le cui cupole, come quelle del Padiglione Zero di fronte all’ingresso, richiamano le Alpi. In primo piano le «vele» di tela che coprono il Decumano, via maestra del sito predisposto in modo da poter venire riportato in patria per diventare un giardino botanico. Bello anche quello dell’Angola, tecnologicamente complicato. Molto affascinante». È la sua «top three»? «Non faccio classifiche. Ci sono davvero tante cose che, per motivi diversi, colpiscono. Lieve ma molto a tema uno degli ultimi arrivati, il padiglione dell’Olanda con le giostre: è l’idea che l’Expo è anche una festa e il tema dell’effimero viene interpretato in modo gioioso ma anche sofisticato. Mi incuriosisce quello dell’Austria, una cassa armonica intorno ad una foresta. E il Brasile, con il concept della rete: i visitatori cammineranno su una rete sospesa sopra una pavimentazione piantumata, per dare l’idea della difficile sostenibilità ambientale. Poi qualcuno è un po’ in ritardo, ma potrebbe riservarci sorprese: il Marocco, la Turchia...». Tanti spunti, insomma? «Il livello complessivo è davvero alto e articolato. Ci sono operazioni di valore anche nei padiglioni corporate: lo spazio di Slow Food, ad esempio, è di una semplicità poetica. Save the Children ha usato pannelli di bambù fatti dai ragazzi durante un periodo difficile della loro vita in una sorta di laboratorio di autocostruzione: alcune volte l’innovazione non è il brevetto ma il metodo».