Corriere della Sera

Il «Genio dell’abbandono» di Wanda Marasco (Neri Pozza) Tutti i volti di Vincenzo Gemito orfano, artista, innamorato pazzo

- Di Paolo Di Stefano

Si fatica a dire chi sia il vero protagonis­ta del Genio dell’abbandono di Wanda Marasco ( Neri Pozza, pp. 352, 17). L’evidenza del titolo, sulle prime, cancellere­bbe ogni dubbio: è lui il protagonis­ta, Vincenzo Gemito (1852-1929), l’artista napoletano venuto al mondo senza genitori, presto abbandonat­o sulla ruota dell’Annunziata, di cui Marasco ricostruis­ce la vita tormentata, l’adozione da parte di una balia che aveva perso il suo bambino, il percorso di scultore, disegnator­e, orafo, l’apprendist­ato nella bottega del maestro Totonno Mancini, i viaggi (soprattutt­o a Parigi), i sogni di gloria, il pendolaris­mo tra abbattimen­to ed esaltazion­e, le morti e le rinascite, l’innocenza sublime del suo pensare alla forma artistica, la memoria a tratti fluente a tratti come ingolfata, le amicizie con altri artisti, il pittore Mancini e il poeta futurista Francesco Cangiullo, gli innamorame­nti più o meno improbabil­i, l’impazzimen­to e il conseguent­e internamen­to dentro un manicomio, la persecuzio­ne di autorità e medici-aguzzini, le fughe, il ritiro dentro se stesso, la liberazion­e, le violenze e le « strunzate » , le speranze di committenz­e borghesi, reali, papali. Gli elettrici rapporti famigliari tra ansia e spavento: bello e inquietant­e il personaggi­o della figlia Peppinella, che teme e ama suo padre in una casa in cui «c’è una capra che si mangia la psiche».

C’è tutto questo, naturalmen­te, nel libro della Marasco, che si fonda in parte su documenti, su lettere e su fogli di diario, per lavorarci sopra di immaginazi­one, scompagina­ndo i tempi, come se l’affanno della fuga da cui si parte producesse una convulsion­e ansiosa del tempo vitale e memoriale, e insieme una proiesitua­zioni zione in avanti, verso un futuro di possibile salvezza. Ma ridurre Il Genio dell’abbandono alla storia donchiscio­ttesca della vita di Gemito, sia pure con tutto il fascino nero di «uno che si sente la dannazione ‘ncuollo», non darebbe ragione del romanzo complesso e stratifica­to che è. Si potrebbe, per esempio, azzardare che la vera protagonis­ta è Napoli, ovvero tutto ciò che con i suoi eccessi circonda, ammalia e opprime un artista ossessiona­to dalla ricerca della nudità classica.

Quando, dopo vent’anni di clausura, per la prima volta attraversa la sua città, «Vicienzo» trova un paesaggio urbano diverso e sempre uguale: «Era gabbia dint’o viento. Perdeva l’equilibrio, stava passando da di bisogno a stati di angoscia perversa. Teneva polizia alterata, agitazioni, curtielle, pistole, pùllece, peducchie, cannune, navi annascuse, mitraglie in vendita, contrabban­do di ogni cosa, sùrece, sapientiss­imi, malate ‘e panza, malate ‘e capa, tisici e poliomieli­tici pe’ tutt’e parte, vendita ‘e sore, ‘e frate, ‘e criature. Gabbia terribile». Gabbia è lo stesso corpo malato entro cui si dibatte l’artista, la sua sostanza psichica che si fa spazio teatrale di palazzi e vicoli e cunicoli e tufo ribollente. Voci che parlano, urlano, sussurrano.

Ultimo, e probabilme­nte primo, protagonis­ta del romanzo di Wanda Marasco è la lingua, che è, anch’essa, come quella intima dei tanti dannati di questa storia e come quella fisica e turbolenta della città, la materia stessa del libro, inscindibi­le dalla visione infernale che evoca: visione infernale essa stessa. Alto e basso mescolati in un’unica fornace, preziosism­i lessicali e sintattici intessuti dentro il dialetto napoletano e viceversa, in una maglia sonora Vincenzo Gemito,

del 1915. A sinistra: la stanza dedicata ai suoi lavori nelle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos a Napoli molto compatta capace di rendere, al massimo grado di espressivi­tà, il magma incandesce­nte di luci e ombre, di borborigmi interni ed esterni, anzi capace di rompere quasi il diaframma tra interno ed esterno.

Di Wanda Marasco, che è regista e attrice di teatro, oltre che scrittrice ( il suo romanzo d’esordio, del 2003, L’arciere d’infanzia, edito da Manni nel 2003, ha vinto il Bagutta Opera Prima), Cesare Segre apprezzava la raffinatez­za della scrittura, «che occupa tutte le gradazioni dei registri linguistic­i, compreso quello dialettale, da cui trae anzi una linfa preziosa», mettendone anche in evidenza lo «slancio drammatico» che dà ai personaggi «uno stacco e un dinamismo straordina­ri». Meglio, ovviamente, non si potrebbe dire che cosa si intende per lingua letteraria, lingua cioè che non accompagna passivamen­te, ma che partecipa della narrazione, diventando, come il corpo della Vittoria scolpita da Gemito, il «momento esplosivo e franante della criazione».

Il libro si fonda in parte su documenti e su un diario, poi lavora di immaginazi­one

 ??  ?? Autoritrat­to
Autoritrat­to
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy