Corriere della Sera

Contratti e maternità, i decreti scomparsi Dubbi della Ragioneria sulle coperture

A un mese dal varo del Jobs act, i provvedime­nti non ancora arrivati in Parlamento

- Lorenzo Salvia

Che fine hanno fatto gli ultimi due decreti attuativi del Jobs act, la riforma del lavoro? È passato più di un mese da quando, era il 20 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato i due provvedime­nti, quello che correggeva alcune regole sulla maternità e quello che, anche con lo stop ai co.co.pro, dovrebbe favorire la trasformaz­ione di contratti precari in contratti a tempo indetermin­ato. Ma in Parlamento, dove sono attesi per il parere delle commission­i Lavoro, non è ancora arrivato nulla. I due testi sono ancora fermi sul tavolo del governo. E al centro di uno scontro fra la presidenza del consiglio e la Ragioneria di Stato, l’organo del ministero dell’Economia che ha l’obiettivo di garantire la «corretta gestione e la rigorosa programmaz­ione» delle risorse pubbliche. Qual è il problema? Tutto ruota attorno alle risorse che il governo ha messo sul piatto per l’intero pacchetto del Jobs act. Conil decre to su i co. co. pro. il governo vuole spingere quelli che oggi sono rapporti di lavoro precari verso il nuovo contratto a tutele crescenti, già operativo, che è a tempo indetermin­ato anche se non c’è più lo scudo dell’articolo 18 contro i licenziame­nti. Quanti potrebbero essere i lavoratori precari trasformat­i in lavoratori a tutele crescenti? Nei giorni scorsi era stato il responsabi­le economia del Pd, Filippo Taddei, a indicare in 300 mila la soglia minima. Sarebbe un ottimo risultato dal punto di vista della stabilità del lavoro. Ma anche un problema per il governo, un rischio per la tenuta dei conti. Perché? I contratti precari hanno in media un basso salario ma portano nelle casse pubbliche parecchi soldi, visto che i contributi possono coprire, a seconda dei casi, il 24,5% o addirittur­a il 30,75% della paga. Il nuovo contratto a tutele crescenti, invece, non porterà quasi nulla. Perché, oltre al licenziame­nto più facile, a renderlo attraente è proprio il fatto che i contributi non si pagano, con uno sconto che può arrivare fino a un massimo di 8.060 euro l’anno per tre anni. Un successo politico potrebbe diventare un problema economico. Lo scontro che va avanti da un mese è proprio su questo punto. E non si trova una via d’uscita tanto che la prossima settima è previsto a Palazzo Chigi un incontro considerat­o «decisivo» fra governo e Ragioneria generale dello Stato. Non è il primo braccio di ferro sul Jobs act. Già sul contratto a tutele crescenti la Ragioneria aveva sollevato perplessit­à, sostenendo che i quasi 2 miliardi di euro stanziati per coprire lo sconto sui contributi potessero non bastare. Adesso quel nodo torna al pettine. Nei giorni scorsi erano circolate voci anche di una completa riscrittur­a del decreto sui co.co.pro. E alcuni osservator­i - come Adalberto Perulli, professore di diritto del lavoro all’Università di Genova - avevano parlato di «falso superament­o della precarietà » . Il punto è che il provvedime­nto non cancella le forme di collaboraz­ioni più datate, quelle regolate per legge nel 1973, che non prevedono nemmeno i minimi contrattua­li. Ma il testo non dovrebbe cambiare. Si tratta di una valvola di sfogo per poter sottoscriv­ere contratti parasubord­inati nel rispetto della legge. Una richiesta arrivata soprattutt­o dal vasto mondo della creatività, cultura e spettacolo dove ci sono poche alternativ­e a questo tipo di rapporto. E che, non soggetta allo sconto sui contributi, porterebbe anche qualche soldo nelle casse pubbliche.

I lavoratori precari Secondo Taddei (Pd) i precari trasformat­i a «tutele crescenti» sarebbero 300 mila Le collaboraz­ioni Il provvedime­nto non cancella le forme più datate, regolate nel 1973, senza minimi

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