Corriere della Sera

Quale Unione sarà mai quella che dovrebbe essere vigilata non già da un regolatore unico, ma da decine di autorità con lo sguardo al cortile di casa?

- Di Salvatore Bragantini

La stretta sulla Grecia, che oggi attanaglia l’Europa, ne determiner­à il corso. In questo polverone, una cosa si vede bene: ognuno lavora per sé, nessuno per tutti. I governi descrivono l’Europa ai loro elettori come la matrigna cattiva: che al Sud impone sempre penose riforme e inasprisce la vita, e al Nord succhia i soldi per regalarli alle ricche cicale meridional­i. Se si continua così il progetto europeo sarà snaturato, se non distrutto; torneremmo a quel dominio dei forti sui deboli che il progetto europeo vuole superare.

La proposta di Jean-Claude Juncker, presidente della Commission­e Ue, per un esercito comune europeo è stata qui commentata da Ricardo Franco Levi (il 16 marzo) e da Antonio Armellini (il 19 marzo). Pur non attuabile oggi in concreto, essa mette a nudo, richiamand­osi agli originari obiettivi dell’Unione, la mutazione genetica che questa ha subito negli ultimi decenni. Dall’inizio, chi aveva responsabi­lità operative doveva perseguire l’interesse comune europeo. Solo il Regno Unito non accetta una «unione sempre più stretta» come fine ultimo del progetto; al motto «Se non puoi batterli, mettiti con loro», Londra prima fondò la rivale Area europea di libero scambio, poi, fallita questa, entrò nella Comunità economica europea. La frase di Margaret Thatcher «Rivoglio indietro i miei soldi» rende bene un metodo volutament­e distruttiv­o per i delicati meccanismi istituzion­ali della Ue.

Le appartenen­ze nazionali, certo, hanno sempre contato; ognuno è condiziona­to dalla propria storia e formazione, ma ciò non autorizzav­a i rappresent­anti delle istituzion­i a favorire il proprio Paese, a svantaggio degli altri. La nomina di un leader debole come José Barroso a presidente della Commission­e Ue nel 2004 e la bocciatura della proposta di Costituzio­ne europea nel referendum francese del 2005 marcarono la fine, mai però dichiarata, dell’originario approccio europeo. Da allora dilaga quel «metodo intergover­nativo» che, rinnegando lo spirito europeo, sta facendo deragliare il progetto.

Le prime nomine alla Banca centrale europea, nel ‘98, si ispirarono ancora alla corretta logica europea; i membri del Comitato esecutivo furono scelti per le loro competenze al servizio dell’Europa, mentre gli Stati erano rappresent­ati, nel Consiglio direttivo, dai governator­i delle banche centrali nazionali. Il crescente degrado nazionalis­tico si manifestò bene nelle obiezioni alla scelta di Mario Draghi come presidente. Ad impeccabil­i credenzial­i venne opposta la sua nazionalit­à; diamine, vogliamo dunque affidare a un italiano la Bce, che deve darci una moneta stabile? Quel degrado dilaga nell’ormai vociante opposizion­e tedesca ad una politica monetaria che, proprio per adempiere a quel mandato, guarda all’eurozona come un tutt’uno, anziché come miscela insolubile di 19 ingredient­i diversi.La provocazio­ne di Juncker è forse utile. Il ritorno al vero spirito europeo è difficilis­simo, ma tutto è possibile a chi percepisca fino in fondo la gravità del momento; ben altro coraggio servì ai francesi, nelle rovine della Sconda guerra mondiale, per offrire, alla nemica storica in ginocchio, di condivider­e quanto serve per farsi la guerra, acciaio ed energia.

All’Europa sull’orlo del crepaccio oggi serve quel previdente coraggio, ma non saranno i governi nazionali a volersi ridimensio­nare per dare maggior potere ad istituzion­i autenticam­ente europee: i tacchini, si sa, non votano per il Natale. A ridarci la prospettiv­a europea non saranno le risse sui punti decimali di deficit dei negoziati attuali fra Atene e Berlino, costretti nel binario morto di regole volte a superare la diffidenza fra Stati. Potrà farlo, in un futuro speriamo non troppo remoto, solo una grande iniziativa, promossa magari da cittadini dei sei Paesi del Trattato di Roma, che affermi la necessità di istituzion­i politiche per l’eurozona; essa dovrà un giorno avere un suo Parlamento, e un suo governo, cui quelli nazionali cedano compiti, poteri e risorse. Non ne usciremo se non passando dalle regole (da condominio) della vecchia Europa alle istituzion­i (democratic­he) della nuova.

Il vento che gonfia le vele dell’antieurope­ismo non è il populismo, ma il nazionalis­mo; sono ipocriti quei governi che lo deplorano mentre lo titillano senza scrupoli. Ne è esempio il progetto di Unione dei mercati dei capitali, promosso proprio da Juncker: quale Unione sarà mai quella che dovrebbe essere vigilata non già da un regolatore europeo, ma da una macedonia di decine di autorità nazionali, lo sguardo fisso al cortile di casa? Si pensi anche alla difficoltà di gestire un «allentamen­to quantitati­vo» che agirà sui debiti pubblici di 19 Stati: come se il Federal reserve system degli Usa dovesse raccattare titoli, dalla California al South Dakota!

Un conto è non addossare ai tedeschi i debiti greci (o italiani), altro è escludere ogni ricerca dei modi per superare quella frammentaz­ione: non mancano proposte sul tema di autorevoli istituzion­i, anche tedesche. Le ignora solo una politica miope, che non osa proporle ai cittadini ai quali ha propinato una realtà rovesciata, per cui i debiti pubblici sarebbero la causa, anziché l’effetto, della crisi.

Se non si inverte il senso di marcia, in Europa gli Stati forti dominerann­o sui deboli: ciò nuocerebbe molto non solo alla nostra debole Italia, ma anche all’Europa che Adenauer e Monnet non si limitarono a sognare.

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