PERCHÉ SIAMO VULNERABILI ALLE MINACCE DALLA LIBIA
La Tunisia reggerà al contagio libico soltanto se sarà puntellata da una consistente assistenza militare e da aiuti che compensino le scontate perdite nel settore turistico.
Gli algerini sono più bravi a sorvegliare i confini, ma potrebbero anche loro scoprirsi vulnerabili alla minaccia jihadista come in realtà sono. La minaccia cresce in una Libia anarchica, contagia i vicini, si incrocia con le migrazioni di massa, sfrutta ogni giorno di più le sue capacità telematiche di reclutamento, tiene in allerta i presunti «lupi solitari» che risiedono già in Europa. E allora, quanto tempo sarà ancora concesso ai tentativi di Bernardino León ? Quando si decideranno gli europei, e necessariamente anche gli americani, ad elaborare un «piano B» nel caso gli sforzi del mediatore Onu restino vani?
Si capisce perché la politica e la diplomazia non gradiscano questi interrogativi. Perché portano diritti all’uso della forza, quella forza di cui l’Isis si serve in abbondanza. Noi non siamo l’Isis. Dobbiamo svegliarci, ma senza dimenticare che siamo democrazie e abbiamo opinioni pubbliche. E poi la forza, lo insegnano i militari, richiede partecipazioni adeguate, piani di intervento, una previsione di durata e metodi di sganciamento senza abbandonare tutto come fu fatto nel 2011. E richiede fronti interni capaci di incassare perdite.
Il dilemma è comprensibile, ma non deve portare alla paralisi. Se i requisiti sopra citati non esistono si passi all’embargo energetico (con perdite transitorie per l’Italia) e al blocco navale, si rifletta a strumenti di pressione più convincenti della mediazione Onu. E si insista nel coinvolgimento di tutta l’Europa e degli Usa, perché la Libia non è meno decisiva di Tikrit o di Mosul.