«All’italiana» non vuol dire senza speranza Ribellarsi al disfattismo è giusto (e possibile)
Problemi, fatica. Ma abbiamo tradizione, grandi insegnanti, studenti vivaci, medici ammirevoli
(Fandango) L’amore è decisamente una forma d’insanità mentale Nuda cruda vera amabile poesia Hans Christian Andersen, Tutte le fiabe. Una ogni notte prima di addormentarsi Isabella Santacroce, Supernova. Quando un libro spacca lo stomaco dato — in ogni settore, umanistico, scientifico, tecnologico — al mondo dagli Stati Uniti, dalla loro cultura e dalle loro istituzioni, e sarebbe stupido e fazioso trinciare un giudizio sulla Scuola Europea avendo soltanto sfogliato un paio di libri disastrosi.
Si denunciano — giustamente — le condizioni in cui si trova la scuola italiana — la mancanza di fondi, le lungaggini burocratiche dei concorsi, la precarietà di moltissimi insegnanti, l’arretratezza tecnologica nel digitale, la goffa e servile introduzione nell’università del sistema dei crediti che, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, disincentiva l’investimento personale nell’apprendimento, perché abitua a pretendere che ogni sforzo sia ricompensato immediatamente e scoraggia le ricerche a lungo termine ossia l’investimento di energie. Per non parlare della ridicola quantificazione delle pubblicazioni che all’università spinge ogni docente a produrre ogni sei mesi qualche «contributo» e distoglie da studi di lungo respiro che facciano progredire la ricerca. Ma si dimentica il lavoro improbo, innovatore, appassionato di tanti insegnanti (universitari, di liceo o di scuola media) che riescono a creare interesse e spirito critico fra i ragazzi, a far loro conoscere e amare l’arte, la letteratura o la matematica, a seguire con libertà di giudizio le trasformazioni epocali che stanno sconvolgendo in bene e in male la nostra vita. Ho spesso occasione di incontrare classi — medie inferiori e superiori, talora anche se più raramente elementari — e di trovare entusiasmo, fantasia, autonomia di gusto.
Di recente ho avuto purtroppo occasione di frequentare, per varie e serie difficoltà di salute in cui sono incorse persone a me care e vicine, ambulatori e ospedali privati e pubblici, soprattutto a Trieste e anche a Roma, e sono rimasto colpito dall’acutezza e competenza di alcuni medici e chirurghi di varie specialità, accompagnate da una notevolissima disponibilità umana e capacità di ascoltare con partecipe fermezza il paziente; persone — Fabio Baccara, Fulvio Camerini, Francesco Fanfani, Franco Kokelj, Gianfranco Sinagra, cito i nomi solo per essere, come si deve essere, concreto e non vago e generico — che ho visto dare a tutti i pazienti che vedevo loro affidati un confortevole senso di sicurezza, calore e civiltà. Ovviamente questa esperienza non può essere generalizzata e non toglie la gravità e l’indecenza di tanta malasanità. Inoltre so bene che è più facile dedicare attenzione umana al paziente in una città media che in una metropoli con milioni di abitanti. Ma forse è giusto comunicare ogni tanto pure esperienze positive, anche se sono solo personali e non il risultato di inchieste e ricerche basate su campioni più numerosi.
È ovvio che si parli quando c’è un male da denunciare e non quando tutto funziona bene; il signor Rossi finisce comprensibilmente sul giornale quando è autore o vittima di un delitto, non quando va a fare scrupolosamente il suo lavoro. Dunque, nessun «tutto va bene, Madama la Marchesa», bensì una vigile, dura e documentata accusa di tutto ciò che non va. Ma senza il banale e gregario compiacimento di dire, per ogni cosa che non va, «all’italiana».