Boldini, i «pennelli in fuga» e l’astio per les italiens de Paris
Chi scelse l’estero divenne bersaglio di ostilità trasversali
Risentimento, invidia, ma anche fedeltà agli ideali e purezza di principi. C’era un’ampia varietà di motivazioni, più o meno alte, dietro l’ostilità che gli artisti rimasti in Italia manifestavano nei confronti dei colleghi come Boldini, De Nittis, Zandomeneghi o Rosso, che avevano trovato il successo a Parigi.
L’accusa più facile era quella di essersi svenduti al mercato. Dietro la fortuna degli italiens de Paris, c’erano infatti i due principali mercanti dell’epoca, impegnati su fronti opposti: da una parte Adolphe Goupil, che sosteneva gli accademici, e dall’altra Paul Durand-Ruel, schierato con gli impressionisti.
Se si riusciva ad entrare nelle loro scuderie, che gestivano il grand jeu del mercato internazionale (dal collezionismo americano a quello inglese, olandese, tedesco e sudamericano) il successo era garantito. Fra i più risentiti contro coloro che a Parigi rappresentavano l’Italia «dello chic», i virtuosi della pittura à la mode, c’erano i Macchiaioli rimasti o ritornati in Toscana come Adriano Cecioni.
Costui definiva «nauseante e stomachevole» la pittura praticata dall’«accademia dei signorotti vestiti», come li chiamava il pugliese Francesco Netti, che pure era stato a Parigi e a Napoli aveva frequentato De Nittis. Boldini, dal canto suo, ricambiava l’astio considerando niente meno che «canaglie» i vecchi compagni macchiaioli.
Il più indulgente del gruppo e il più internazionale, Telemaco Signorini, fece invece delle aperture, come del resto il critico Diego Martelli, il mentore dei macchiaioli nella sua tenuta di Castiglioncello. Durante i numerosi viaggi a Parigi aveva apprezzato gli impressionisti e riguardo alle tele di Boldini ammetteva che nonostante tutti i difetti: «Lo gnomo vi inviluppa, vi sbalordisce, vi incanta; le vostre teorie se ne vanno, ed egli ha vinto».
Fu sempre Martelli a facilitare non solo i rapporti fra gli impressionisti e Zandomeneghi, ma anche a cercare di mettere costui in buona luce presso i toscani. In una lettera dell’estate 1878 inviata da Parigi a Giovanni Fattori scriveva che Zandomeneghi «ha finito un quadro del Moulin de la Galette, che non piace a chi lo vede de’ nostri; cosa che lo mortifica estremamente».
Il più irriducibile e «puro» era invece Adriano Cecioni. Gran caratteraccio, ruppe anche con l’amico De Nittis nonostante la sua personalità amabile. La loro amicizia iniziata a Napoli nel A spasso Giuseppe De Nittis, «Avenue du bois de Boulogne», 1874. Fu accusato di virtuosismo fine a se stesso 1864 si incrinò proprio a Parigi dove Cecioni era stato chiamato dal pittore di Barletta. Tornato in Italia, rimproverò a De Nittis di «avere cominciato a trasformare la sua pittura, passando dalla ricerca del giusto a quella del très-joli, dalla precisione alla negligenza, dalla semplicità alla bravura». Cioè al virtuosismo fine a se stesso.
Meno acidi furono i pittori della scuola napoletana — i Mancino, Michetti, Dalbono, Tofano — presso cui Goupil faceva man bassa di soggetti «pittoreschi» come le marine ambientate a Mergellina e Posillipo, o le feste popolari.
Le ostilità, comunque, non correvano solo da Sud a Nord, fra chi era rimasto e chi era espatriato. Nemmeno gli italiani a Parigi si amavano fra loro. Zandomeneghi, per esempio, ebbe sempre in antipatia sia De Nittis che Boldini: giudicando il primo un mestierante e accusando di plagio il secondo, si guardava bene dal frequentarli.
Il fatto è che quasi tutti tentarono la fortuna nella Ville Lumière, ma solo in pochi ci riuscirono. La maggior parte, provata dalla povertà, tornò in Italia carica di delusione e di tensioni.
Duro e puro Cecioni, tra i macchiaioli rimasti in Toscana, definiva «nauseante» la pittura dei colleghi espatriati. La verità è che il successo parigino fu di pochi